Scendiamo dalla giostra

Già vivere è un bel rischio. Ma divertirsi ancora di più, di questi tempi. Precipita una giostra che fa mulinare otto persone a 38 metri dal suolo alla folle velocità di 80 chilometri orari, due malcapitati finiscono all’obitorio – com’è avvenuto di recente a una sagra nei dintorni di Parigi – e il costruttore italiano dell’attrazione fatale compare nei tiggì per informarci, sbalordito e affranto, che proprio non capisce, non se lo spiega, gli pare impossibile, «mai avuto problemi di questo tipo», i timbri erano al posto giusto, il libretto delle revisioni in ordine. Be’, ma ci sarà pure un motivo se nel catalogo della sua azienda la giostra in questione è rubricata nelle categorie «extreme» e «spectacular». E che cosa c’è di più estremo della morte e di più spettacolare di una morte al luna park? Bei tempi quando a Bergantino (Rovigo), oggi divenuta capitale mondiale di quest’industria, i contadini s’affrancavano dalla coltivazione della barbabietola e dell’anguria accontentandosi d’andare in giro per il Belpaese a chiudere le feste patronali con i fuochi d’artificio, lavoro certo non meno pericoloso, ma che almeno mette a repentaglio solo le vite dei pirotecnici, e non quelle degli spettatori.
Magari sono prevenuto. Ho un figlio di 11 anni che ha una certa consuetudine col pronto soccorso. Agli inizi di luglio s’è lanciato dal «turbo scivolo» in un parco acquatico. Nessuna manovra improvvida: ha fatto quello che fanno tutti i ragazzini della sua età. A metà discesa la madre lo ha visto sobbalzare. Al tuffo finale in piscina aveva la mandibola bloccata, il viso terreo e un’espressione spaventata. Diceva di sentirsi «strano». Accusava un dolore alla nuca e una parestesia al braccio sinistro. «È solo un’insaccata», hanno minimizzato i responsabili del parco, «ne vediamo tante». Come sarebbe a dire? Chi ha progettato quel toboga? Chi l’ha collaudato? Non capisco un’acca d’ingegneria, ma avranno fatto qualche calcolo sul rapporto fra indice di pendenza, peso dell’utente e velocità? Risultato: telefonata al 118, ambulanza, ricovero nella clinica più vicina, radiografie, visita neurologica, risonanza magnetica, trasferimento nell’ospedale cittadino, consulenza neurochirurgica, vomito, notte in osservazione nel reparto pediatrico. Diagnosi: trauma del rachide cervicale. Sette giorni col collarino. Qualche autorità terrà una statistica di questi incidenti? Mai sentito parlare di estrusioni dentali e ferite lacero-contuse nei parchi acquatici? Informatevi.
La tappa più recente dell’undicenne spericolato – stavolta solo per guardare – è stato un autodromo del Bresciano dove sfrecciano go-kart elettronici che «offrono le stesse prestazioni dei kart a benzina con accelerazioni mozzafiato, in configurazione da gara, da 0 a 100 chilometri orari in 3,9 secondi!». È la medesima accelerazione della Porsche 911 turbo coupé progettata per toccare i 310 all’ora (fidatevi, tengo una rubrica su Quattroruote). L’aspetto incredibile della faccenda è che danno da guidare questi mezzi ai bambini dai 6 anni in su. Ma qui, perlomeno, i responsabili ti fanno firmare una liberatoria in cui dichiari d’essere a conoscenza che «questa attività è pericolosa» e sollevi la direzione da tutti i rischi che potrebbero derivarne a persone o cose.
Ormai l’offerta di divertimenti «extreme» e «spectacular» è diventata talmente pervasiva che nessun genitore, per quanto assennato, è più in grado di opporvisi. Provateci voi a trattenere i vostri figli dall’esperienza della «jungle adventure», quando la giungla dell’avventura si trova a meno di 30 chilometri da casa vostra e tutti i loro amici l’hanno già provata come minimo tre volte. Una domenica ho infine ceduto. Un’esperienza da panico: teleferiche discendenti e ponti himalayani sospesi a 20 metri da terra. E sto parlando del tratto per principianti, che devono ancora imparare come si aggancia e si sgancia un moschettone, come si serra un’imbragatura. Gli improvvisati Tarzan d’ogni età vengono istruiti in un quarto d’ora prima d’iniziare il percorso aereo. Ma sono così numerose le precauzioni raccomandate dall’istruttore che risulta materialmente impossibile per chiunque ricordarle tutte e applicarle con la necessaria perizia. Ne ricordo una, in particolare: «Sulla teleferica mai mettere la mano davanti alla carrucola. Vi trancerebbe tutte le dita».
Non mi vergogno a confessare d’essermi fermato alla seconda piazzola sopraelevata, mentre i miei familiari, già molto più avanti, m’incitavano a proseguire. Davanti a me, un cavo d’acciaio. Avrei dovuto camminarci sopra, come gli equilibristi del circo, sia pure aggrappandomi a due liane di sostegno. Ho chiesto aiuto – ludibrio delle genti – e ho atteso, come da regolamento, i sorveglianti con lo scalone telescopico. Mi hanno calato di sotto. A uno è scivolata di mano la fune: lui s’è bruciacchiato i palmi, io me la sono cavata con uno strattone in una zona anatomica che non starò a precisare (sempre meglio, comunque, che cadere alla Fantozzi con le gambe divaricate sul cavo d’acciaio). Il resto dell’avventura è consistito nel seguire con lo sguardo moglie e figli che passavano da un abete all’altro su passerelle ondeggianti nel vuoto. Da non augurarlo al peggior nemico.
Per cui, scuserete il cinismo, ma a me è venuto più da ridere che da piangere quando, pochi giorni fa, ho sentito i titolari di Mirabilandia, il parco di divertimenti nel Ravennate, commentare così la morte di un ventottenne investito dall’ottovolante mentre cercava di recuperare sul prato il cappellino perso durante il giro di giostra: «Il Katun è un gioco dal forte impatto sul pubblico, ma sicurissimo». Che genere d’impatto s’è visto: quello delle gambe di una passeggera, immobilizzata nel vagoncino, che sfondano il cranio dell’incauto a terra.
Niente è sicuro, a questo mondo. Figurarsi sicurissimo. Alla velocità di 110 chilometri orari, con giravolte di 360 gradi e una vertiginosa caduta di 50 metri, poi. Se è successo, significa che poteva succedere e che succederà ancora, purtroppo. Basta saperlo, e non stupirsene, incolpando il fato, quando succede. Più rispetto per la vita, semmai, ci vorrebbe.

Quest’idea che le giostre non debbano mai avere incidenti, quasi fossero esentate dall’alea che circonda ogni attività umana, è alquanto bizzarra e s’inscrive perfettamente nella mentalità corrente di una società scriteriata, che ha finito per credere davvero di poter tutto prevedere, tutto controllare, tutto evitare. La pensavano così anche gli armatori del Titanic ed è finita com’è finita.
Stefano Lorenzetto
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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