RomaRenato Schifani spedisce una citazione civile al Fatto Quotidiano e chiede 720mila euro di risarcimento per una serie di inchieste che il giornale aveva dedicato al presidente del Senato tra novembre del 2009 e gennaio scorso. Articoli contenenti «dichiarazioni altamente diffamatorie», recita tra laltro la citazione di 54 pagine della seconda carica dello Stato, che avrebbero «tratteggiato» Schifani come «un soggetto vicino agli ambienti della criminalità mafiosa», ledendone «reputazione, dignità e prestigio personale e professionale».
Il giornale diretto da Antonio Padellaro reagisce alla chiamata in giudizio dedicando alla notizia lapertura del giornale, leditoriale e due pagine interne. Rimarcando, sotto il titolo «scriveremo tutto», come Schifani abbia evitato di sporgere una querela penale, «che da una parte avrebbe consentito al Pm di svolgere autonomamente indagini sui fatti contenuti negli articoli in maniera più ampia rispetto a quanto si può fare in sede civile. E che dallaltra sarebbe potuta sfociare, in caso di un nostro rinvio a giudizio, in un dibattimento pubblico senzaltro interessante per chi vuol conoscere i trascorsi della seconda carica dello Stato». E insomma, così come stanno le cose, secondo il quotidiano di Padellaro e Travaglio, la citazione in giudizio firmata Schifani sembra più che altro «una spada di Damocle economica sulla testa di un giornale appena nato».
Se diffamazione cè stata lo deciderà il giudice, come peraltro osserva lo stesso editoriale. Ma quello che stupisce è una sorta di «sindrome di Nimby» che pare aver colpito il Fatto: ieri intento a reclamare (per se stesso) «libertà di stampa» e a sottolineare la difficoltà di difendersi in sede civile. Giovedì scorso in trincea, con tanto di elmetto, dallaltra parte della barricata.
Già, perché il 22 aprile il Fatto Quotidiano aveva dedicato una intera pagina allesito di tre cause - civili, proprio come quella di Schifani stigmatizzata dal fatto - intentate da Antonio Di Pietro al Giornale. E concluse, in primo grado, con il riconoscimento di ricchi risarcimenti per il leader dellIdv. In quelloccasione, curiosamente, il giornale di Padellaro non ha parlato di «tagliola sulle notizie», non ha stigmatizzato la giurisprudenza-bavaglio, non ha augurato riforme della legge sulla stampa per «smontare il ricatto di richiesta dei danni». Questa roba il Fatto Quotidiano lha pubblicata ieri, pro domo sua. Giovedì scorso ha preferito, piuttosto prevedibilmente, a dire il vero, sposare le parti del buon Tonino, con un articolo dal garbato titolo «Obiettivo: diffamare». La cui lettura chiarisce il mistero. Non è che il Fatto Quotidiano sia garantista a geometria variabile, a seconda del momento o della convenienza: la politica dei due pesi e delle due misure cè, ma è giustificata in modo esemplare nel pezzo di giovedì scorso. Dopo aver snocciolato i nomi dei giornalisti «soccombenti», il Fatto spiega: «Al di là dei nomi il punto è un altro. Le denunce penali e civili sono rischi del mestiere di giornalista e può capitare a tutti di incappare in una parola di troppo, uninesattezza dovuta alla fretta, un eccesso di sintesi o di critica, insomma in un errore in buona fede». Ma questo grazioso preambolo non si applica ai cronisti del Giornale, naturalmente. Perché «qui non si tratta di cronisti che sbagliano, ma di killer che mentono sapendo di mentire». Pazienza se poi la prima delle sentenze che in primo grado hanno dato ragione a Di Pietro si concentri su una sola delle contestazioni avanzate dallex Pm. E pazienza che quellunica contestazione accolta fosse una citazione virgolettata di un libro di Ferdinando Imposimato («Corruzione ad alta velocità») in cui si attribuiva a Di Pietro luso di una sim svizzera riferibile a Pacini Battaglia. Pazienza anche che la notizia sia stata considerata «palesemente falsa» dal tribunale di Monza perché il «presunto utilizzo della scheda svizzera» accennato nellarticolo sarebbe avvenuto tra febbraio e giugno del 1995, ossia successivamente allabbandono delle funzioni di magistrato da parte di Di Pietro. Che in realtà presentò le sue dimissioni solo ad aprile del 1995, ma il giudice ha ritenuto «irrilevante» la data del formale addio alla magistratura.
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