Schumi torna in pista. Ma che tristezza

C’è qualcosa di terribilmente malinconico, in tutto questo. Improvvisamente, dopo averli venerati come entità infallibili, invulnerabili, invincibili, ci ritroviamo a guardarli con una certa pietà umana. Non è per cattiveria: è così e basta. Viene naturale. Erano grandi e leggendari, erano colossi inarrivabili: ci risultano fragili e smarriti. Come tutti quanti noi, o forse di più.
Persino Schumacher. Considerato tedesco dentro, cioè preciso, quadrato, fermo, irremovibile. Di tutti i miti arrivati alla pensione, l’ultimissimo di cui avremmo detto che sarebbe tornato sui suoi passi. Che si sarebbe fatto tentare dalla diabolica sirena del revival. Schumi se ne va da numero uno, Schumi non cambierà idea. Non è di quelli. Infatti: dopo aver ciondolato da una pista all’altra, cercando emozioni su kart e su moto veloci, eccolo accettare subito la proposta - ma soprattutto l’idea - di ricominciare. Fosse anche solo per qualche gara, a scartamento ridotto, da precario. Lui, che ha avuto tutto, che è stato tutto.
Purtroppo, a quanto pare, la riedizione di se stessi è una tentazione irresistibile. Tanti campionissimi, durante la luminosa carriera, dicono ad un certo punto di non reggere più gli stress, di sognare soltanto la quiete dell’esistenza normale, accanto alla signora e ai pargoli che crescono. Parlano di ritiri nel privato, usano quella sublime immagine che è «finalmente mi riprendo la mia vita». Ecco, appena se la riprendono, non sanno più che farne. La trovano piccina, anonima, inutile, vuota. Molto noiosa. E allora cominciano a rimpiangere le emozioni fortissime di allora. Gli applausi, le interviste, le polemiche, le tensioni. Appunto, lo stress del campione.
Avvitati in questo circolo vizioso, finiscono per tirare fuori in tarda età il peggio di sé. Cioè l’incapacità infantile a scendere dalla macchina, dal ring, dalla bicicletta. Finendo per rovinare tutto. La galleria degli a volte ritornano è affollatissima. Ci sono esempi sublimi. Moser, dieci anni dopo il record dell’ora a Città del Messico, ormai in terza età, s’inventò la riedizione dell’evento, ripercorrendo momento per momento, fase per fase, dettaglio per dettaglio, della pedalata che gli aveva regalato tanta popolarità. Borg, un fuoriclasse da sogno, tornò un giorno a Montecarlo con l’amarcord della sua racchetta di legno, in mezzo ai nuovi bombardieri delle leghe leggere. Finì maciullato, in un mormorio di pena collettiva. E ancora: Tyson. Quello, almeno, tornava per fare qualche soldo e per stare fuori di galera. Ma anche per lui, quanta tristezza.
Inutile comunque risalire troppo nell’antichità. Vicinissimo a Schumacher c’è Armstrong. Anch’egli convintissimo tre anni fa di andarsene nel momento giusto, una volta per tutte, da vincitore, «perché un campione sa quando è il momento di dire basta, non aspetterò di fare compassione al prossimo». Sognava la canna da pesca, per tre stagioni ha bighellonato tra maratone a piedi e pedalate con Bush, infine non ha resistito. Per la causa nobile della lotta al cancro, ha spiegato. Come se già non fosse un testimonial perfetto. Ed è bastato poi vederlo in gara, soprattutto all’ultimo Tour, dove ha sferrato una guerra velenosa al suo giovane compagno di squadra Contador, per comprendere come la vera molla fosse diversa: sempre la stessa, l’incapacità di essere altro, facendo qualcos’altro.
Direbbe Armstrong che a 38 anni è riuscito comunque a salire sul podio del Tour. Dirà forse un giorno Schumi che è tornato per dimostrare come comunque, in mezzo a questi mortaccioni, lui sia ancora un drago, anche con la pancetta, anche con la pancera. Sarebbe però il caso di dire loro che per quanto il ritorno sia confortante, positivo, dignitoso, risulta comunque patetico. Perché qualunque risultato è sempre qualcosa meno, rispetto ad allora. Soprattutto, si porta dietro l’inevitabile atmosfera da bocciofila, con i suoi toni ameni e pittoreschi da reducismo in disarmo, al grido di «però, non male il vecchiardo». È questo che sognano, i nostri Peter Pan tardoni?
Anche Schumi, persino Schumi. Tocca sentire pure questa. E per favore non racconti in giro che quando la Ferrari chiama non si può dire di no. Non posso dirlo io, che guido sempre in coda. Lui è forse l’unico al mondo che poteva permettersi lo sfizio di dirlo. Doveva dirlo. Se non ce l’ha fatta, la spiegazione è un’altra. Molto più seria.


Seguendo le loro carriere, tutti rimaniamo a bocca aperta, stretti e rinchiusi nei nostri limiti, convinti che a noi sia impossibile diventare come loro. Ma evidentemente viviamo in un equivoco. È a loro che risulta impossibile diventare come noi.
Cristiano Gatti

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