Quando i gladiatori, gli idoli degli stadi degli antichi romani, decisero di ribellarsi, per loro non finì bene: i rivoltosi sconfitti vennero crocifissi lungo la via Appia in una lunghissima fila che da Capua arrivò a Roma. Molto meglio andrà, in ogni caso, invece ai calciatori, protagonisti degli stadi moderni, che ieri hanno ben pensato di proclamare uno sciopero per il fine settimana dell’11 e 12 dicembre. I rappresentanti dei calciatori hanno infatti abbandonato il tavolo della trattativa quando la Figc si è permessa di nominare gli argomenti tabù degli allenamenti separati per i «fuori rosa» e dell’obbligo di trasferimento a un’altra società a parità di condizioni. È bastato un accenno a questi intollerabili (per i giocatori) soggetti da parte del presidente della Federazione Abete per far scattare la clamorosa decisione di rovesciare il tavolo dichiarando lo sciopero.
Sarebbe fin troppo facile ironizzare sulla protesta di una categoria che agli occhi della gente comune, preoccupata di far quadrare il bilancio di famiglia, appare se va bene surreale, se va male offensiva, tuttavia ci sono almeno due punti di questa vicenda che meritano un commento oggettivo. Il primo punto riguarda l’abuso della parola «sciopero» che, per quanto inflazionata dovrebbe mantenere una sua dignità, e non applicarsi a fattispecie dove la «prestazione di lavoro» viene solo rimandata (la giornata di campionato si recupererà) e dove non vi è alcun impatto economico per lo «scioperante». Visto che il campionato è composto di 38 giornate sarebbe equa una decurtazione dello stipendio dei calciatori pari a un trentottesimo del salario, considerando una media di un milione e mezzo per i circa cinquecento calciatori coinvolti significherebbe un addebito di circa 40mila euro a calciatore.
Vogliamo scommettere che lo «sciopero» rientrerebbe all’istante? In secondo luogo va considerato il paradosso dello strumento della contrattazione collettiva applicata a un caso così particolare come quello dei calciatori. Nessuno mette in dubbio la legittimità dei loro guadagni, dove c’è un prestatore d’opera che incassa c’è un datore di lavoro che paga e al quale evidentemente pare giustificato erogare cifre che ai più sembrano strabilianti, tuttavia una contrattazione collettiva dovrebbe essere utilizzata per stabilire livelli minimi imprescindibili di tutela, tutela che per qualsiasi mansione viene progressivamente meno con il crescere delle retribuzioni.
Anche nel mondo del lavoro d’impresa il dirigente è meno tutelato dell’impiegato, tanto da poter essere licenziato per semplice giustificato motivo (cosa ben diversa dalla giusta causa necessaria per l’operaio o l’impiegato) fino ad arrivare all’alta dirigenza dove gli stipendi milionari sono governati esclusivamente da un accordo fra le parti che può includere tutte le
clausole desiderate, ma non certo dal contratto collettivo, strumento che veramente poco si adatta a una categoria come quella dei calciatori che poveretti, con la crisi, probabilmente faticano ad arrivare a fine secolo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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