Penso che queste sconfitte, Milano e Napoli prima di tutto, ma poi anche Trieste Novara e Cagliari, possano essere salutari ad alcune severe condizioni. Ma prima di tutto prendiamo atto del fatto che l’Italia è una democrazia viva e vegeta, in cui il sovrano elettore fa quel che vuole e non appare affatto condizionato da pressioni esterne ma soltanto dalle proprie opinioni che determinano le sue scelte. E le sue scelte cambiano, si modellano nel tempo e nelle situazioni. Questo è un segno di grande vitalità democratica.
Punto secondo: durante la legislatura 2001-2006 il centrodestra subì una ininterrotta serie di sconfitte amministrative e noi da queste pagine gridammo con quanto fiato – inchiostro – avevamo a disposizione che si trattava di segnali cui bisognava saper dare una risposta nuova, forte e capace di intercettare l’umore dell’elettorato. Non avvenne invece nulla e nel 2006 vinse Prodi, anche se di poco e per poco tempo. Quella lezione torna attuale.
Terzo: la campagna elettorale è stata sbagliata prima di tutto perché è mancata la percezione del cambio di umore degli italiani di fronte alle angosce economiche, le riforme mancate e nell’immaginario collettivo che ha dato vita al fenomeno politico e sociale simbolizzato da Roberto Saviano, che ha fatto da battistrada alla vittoria di Luigi De Magistris.
Quarto: benché dirlo sia ormai come sfondare una porta già scardinata, la campagna elettorale dai toni muscolari, perentori, con pretese esibizioni di certificati medici psichiatrici, agitando spettri e sparando accuse campate in aria, ha spaventato un ceto medio moderato come quello di Milano che oscilla fra la moderazione progressista e quella conservatrice, ma sempre detestando le urla, le risse e i toni forti.
Quinto: in democrazia dopo ogni sconfitta deve venire il momento dell’analisi e delle responsabilità. Se manca questo passaggio, il seguito non può che essere una ulteriore sconfitta.
Sesto: il valore nazionale e non soltanto locale del risultato di ieri indica lo stato di profondo disagio e delusione nel popolo liberale, perché non ha visto alcuna grande riforma liberale realizzata.
Il fatto che l’Italia sia il fanalino di coda della ripresa europea, dovendosi contentare di non trovarsi nelle condizioni di Grecia Irlanda e Portogallo, si paga: questo è un Paese che vive di turismo culturale e dunque di cultura come risorsa economica, di forte valore aggiunto nelle imprese medie e piccole che hanno bisogno di tecnologia e ricerca scientifica. La sensazione che si sia buttato il bambino insieme all’acqua sporca della crisi è sentito fortemente in Lombardia.
Tutto il linguaggio usato nella campagna è risultato inadatto a rispecchiare i tempi e scarsamente umile. Tutti gli eccessi sono risultati rifiutati.
Settimo: non è vero che abbia vinto «la sinistra» intesa come organizzazione di partito: il Pd ha dovuto adattarsi di malavoglia agli outsiders i quali hanno sconvolto gli schemi, ciò che dimostra come l’avversario del centrodestra oggi non sia il maggior partito di opposizione ma una fermentazione ampia e crescente che tende a riorganizzarsi da sola, passando attraverso strumenti di forte impatto suggestivo popolare che il Pdl non è stato assolutamente in condizione di percepire, valutare, elaborare, creare e meno che mai far suoi.
Ottavo: il presidente del Consiglio farebbe bene a non relegare le sconfitte di Milano, Napoli, Trieste, Novara e Cagliari nel rango minore delle disavventure amministrative, ma farebbe bene a prenderle per quel che sono: seri sintomi, profondi e visibili, che chiedono risposte appropriate, nuove e liberali.
Dunque, se il governo non vuol vedere queste sconfitte trasformarsi in una crisi generale e verticale, deve percorrere una strada obbligata di forti riforme presentate in modo tale da poter essere capite e apprezzate dall’elettorato che ha appena voltato le spalle alla maggioranza, sia per stanchezza che per stizza. Il presidente del Consiglio garantisce che il governo «va avanti». Benissimo, purché lo faccia alla svelta dando luogo a un cambiamento di linguaggio, di stile e di facce.
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