Luciano Gulli
Bengasi sotto il maglio della censura, con i café-internet chiusi, i cellulari muti, i cieli sgombri di sms. Non è uno stato d'assedio, ma in qualche modo gli somiglia (se è vero, come riferiscono testimoni oculari, che i carri armati dell'esercito presidiano le strade e gli incroci principali). Momenti di calma si alternano a nuovi, improvvisi scoppi di collera popolare, riferiscono le poche voci che escono dal capoluogo della Cirenaica. Anche se non si parla più di morti e feriti. Scontri, saccheggi, assalti a edifici pubblici, devastazioni, assedi. Una collera che non accenna a placarsi. Come se il disegno perseguito dalla folla dei facinorosi sia in realtà un altro, e le vignette di Maometto, insieme con lo show in tv del leghista Calderoli, solo un buon pretesto per scatenare l'incendio.
Come se, dice con la cautela prescritta dal suo rango il nostro ambasciatore a Tripoli Francesco Trupiano, «si fosse saldato il radicalismo islamico all'opposizione interna al regime di Gheddafi». Ipotesi respinta con durezza dal regime, secondo il quale l'armonia sarebbe regnata sovrana nel golfo della Sirte se non ci si fossero messi di mezzo i vignettisti danesi e i politici italiani in vena di provocazione.
Perché allora costringere l'operatore telefonico Lybiana a bloccare le linee dei cellulari e chiudere i cyber café, se non per impedire che le fiamme della protesta si propaghino ad altre città del Paese? Sul punto, le autorità di Tripoli tacciono, visibilmente irritate; mentre i portavoce governativi rispondono stizziti al nostro ministro degli Esteri Fini, preoccupato che la situazione possa sfuggire di mano alle autorità libiche. «La smetta Fini di parlare in tal modo», rispondono a muso duro da Tripoli, negando l'evidenza. Certe dichiarazioni sono una «fuga dal problema - afferma una fonte del Comitato generale del popolo libico, citata dall'agenzia di stampa ufficiale Jana - che ignora le sue cause e non guarda in faccia la realtà, dal momento che tutto il mondo è testimone della posizione dei musulmani, le loro marce e proteste con decine di persone morte in Pakistan e in Nigeria, in Libia e altrove, mentre le manifestazioni si sono diffuse in molte parti d'Europa e in America».
Di tensioni interne, di opposizione al regime non vuol sentir parlare il ministro degli Esteri libico Abdul Rahman Shalgam, che diplomaticamente ha ringraziato il ministro Fini per la sua visita di cortesia alla moschea di Roma e rassicurato il nostro ambasciatore sull'incolumità dei nostri connazionali (una ventina, prevalentemente sposati con cittadini libici) che hanno scelto di restare a Bengasi. L'auspicio, espresso dall'ambasciatore Trupiano, è che i tragici avvenimenti di questi giorni «non producano conseguenze» sul piano delle relazioni bilaterali.
La situazione a Tripoli è calma, e non si registrano segnali di ostilità nei confronti dei nostri connazionali. Un altro segnale, nonostante le precipitose smentite del governo, che la protesta popolare non è rivolta contro l'Italia; ma che il bersaglio è il regime. Un'altra conferma arriva dal sito internet con sede a Londra «Akhbar Libia», gestito da oppositori al regime di Gheddafi. Secondo il sito, gli internet café sono stati chiusi per impedire ai giovani manifestanti di comunicare con l'opposizione libica in esilio.
La tensione si è estesa ieri anche a Tobruk, presidiata massicciamente dalle forze di polizia che impedisce e contrasta assembramenti e «ipotesi» di cortei. Ronde di poliziotti perlustrano notte e giorno i quartieri più caldi della città, chiudendo gli internet café e scoraggiando anche semplici raduni di giovani.
E mentre il mondo islamico ancora ribolle di sdegno, anche quello cristiano (nei quadranti del mondo dove più è sotto pressione) comincia a dar segni di risveglio, secondo una non encomiabile ma comprensibile reazione agli attacchi e ai morti subiti. Ieri, due moschee sono state incendiate a Onitsha, nella Nigeria sud-orientale, da cristiani che volevano vendicare le violenze interconfessionali del fine settimana in cui hanno perso la vita almeno 38 persone. La caccia al musulmano, a Onitsha, ieri ha fatto un morto. Poi, è tornata la calma. Ma altri 18 cristiani sono stati uccisi a Bauchi.
Gli attacchi contro la comunità cristiana in Nigeria sono stati al centro di un intervento di Papa Benedetto XVI, che si è detto «rattristato nell'apprendere delle tragiche conseguenze delle proteste nella Nigeria settentrionale».
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