Scontro generazionale: ragazzi datevi da fare

Stop alla retorica del "dobbiamo pensare ai giovani". Il futuro va conquistato. Ma l’aria che tira è da disoccupati con puzza sotto il naso: l’87% non accetterebbe come primo lavoro un posto qualunque

Scontro generazionale: ragazzi datevi da fare

Visto che ultimamente va as­sai di moda parlare ai giovani e dei giovani, avrei anch’io una co­sa da dire: cari giovani, cercate di muovere le chiappe. Datevi da fa­re. Alzate per un attimo lo sguar­do da Facebook, spegnete la Play­station, scendete dal pero e rim­boccatevi le maniche. È vero che siete il futuro, come tutti vi ripeto­no in questi giorni, facendo a ga­ra a blandirvi, dopo che il presi­dente Napolitano ha dedicato a voi il suo messaggio di Capodan­no. Ma il futuro non piove addosso a nessuno. Il futuro va conquistato. E tutte le generazioni prima di voi se lo sono conquistato, sputando sangue e sudore. Mica dormendo tra guanciali di alibi confortevoli, vezzeggiati dalle coccole degli editorialisti e dalla melassa del Quirinale... Sarà che ormai l’età avanza inesorabile anche per chi continua a mostrare una faccia un po’ da bambino, ma non ne posso davvero più di tutto questo giovanilismo a buon mercato che sta rincitrullendo il Paese: poveri giovani di qua, poveri giovani di là, «dobbiamo pensare ai giovani», «dobbiamo lavorare per i giovani», «dobbiamo spendere per i giovani », «l’Italia non è un Paese per giovani» e «la società che inganna i giovani». C’è il rischio che tutto questo compatimento a reti unificate diventi una giustificazione a buon mercato per una generazione di bamboccioni, che così si convincono che sia un loro diritto trovarsi sempre nel piatto la pappa fatta. Anziché doversela conquistare come hanno fatto tutte le generazioni che li hanno preceduti. Per carità, la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli da far paura. Se un ragazzo su tre non riesce a trovare lavoro, c’è di che preoccuparsi. Ma perché un ragazzo su tre non riesce a trovare lavoro? C’è la crisi, certo. Ma sul sito di Repubblica ieri mattina campeggiava un sondaggio sulla domanda chiave «Qualsiasi lavoro meglio di niente?». Ebbene a metà pomeriggio l’87 per cento delle persone avevano risposto «no», cioè non sono disposte ad accettare «qualsiasi lavoro» perché «il primo lavoro è troppo importante», perché «non ha alcun senso sprecare anni di studio» o perché «le condizioni a volte sono svilenti». Disoccupati sì, ma con la puzza sotto il naso. Un dirigente di una grande azienda mi ha raccontatodi essere rimasto senza segretaria lo scorso mese di agosto: su dieci giovani disoccupate interpellate per occupare quel posto nessuna ha accettato. «Dobbiamo andare in vacanza», «Proprio in agosto dovevate chiamarmi?», «Sto partendo per il mare». Alla fine come segretaria ha assunto una albanese, bravissima, che parla quattro lingue e ha una voglia matta di darsi da fare. E allora forse il modo migliore per aiutare davvero i giovani è provare a dare loro una scossa. Smettere di ricoprirli di giustificazioni, di fornire pretesti alle eventuali pigrizie, di attutire con abbondanti dosi di bambagia la naturale tendenza al poltronismo. Altrimenti si incentiva una Generazione S, cioè generazione smidollati, gente che si ritiene in diritto di bivaccare alle spalle dei genitori fino a trent’anni perché «poveri noi, che ci volete fare? È colpa del mondo, della società, dei tempi duri. Ed è così difficile trovare lavoro...». Ma le avete viste le carte d’identità di quelli che vengono presentati come «giovani »? L’altro giorno su Repubblica ne hanno intervistata una: aveva 30 anni. Nel gruppo di dodici universitari saliti al Quirinale per contestare la riforma Gelmini c’erano un ventottenne, un paio di ventisettenni, tre ventiseienni. Ora vi pare possibile che a ventisette anni si possa essere ancora studenti fuori corso a Scienze politiche? O a Filosofia? E vi pare possibile che a 30 anni si possa essere intervistati come «giovani disoccupati» da Repubblica ? A me vengono i brividi quando leggo sul Sole 24 Ore che le Regioni, proprio in nome del giovanilismo imperante, decidono di distribuire più di un miliardo di euro a pioggia, in programmi come «Giovani sì» della Toscana, o «Principi attivi - giovani idee per la Puglia», che probabilmente finiranno solo per finanziare qualche cooperativa di amici con iniziative assurde, dal corso di formazione per tutori del coniglio nano al contributo a fondo perduto per aprire un coiffeur specializzato in clienti calvi. Vi stupisce? Macché. Ne abbiamo viste di tutti i colori negli anni passati: più che ad aiutare i giovani questi fondi normalmente aiutano quelli che sul malessere dei giovani ci sguazzano. Sono gli stessi, probabilmente, che contribuiscono ad alimentare tutta questa retorica che ha obnubilato pure il Quirinale. Dicono: bisogna essere comprensivi,perché nessun’altra generazione si è mai trovata a vivere una situazione così difficile. Ma stiam o scherzando? Se in Italia oggi possiamo permetterci certi lussi, compreso quello di buttare un miliardo di euro in progetti regionali finalizzati all’inutilità, è perché c’è stata una generazione che ha ricostruito il Paese nel dopoguerra, quando la situazione era difficile davvero e per strada c’erano le macerie reali, non quelle immaginate dagli editorialisti. E quando il problema dei giovani era quello di avere o no la pagnotta a fine giornata, mica quello di accendere l’iPad.

E dunque, cari ragazzi, se ce l’hanno fatta loro, i ragazzi del dopoguerra, coraggio, ce la potete fare anche voi. Purché la smettiamo, noi padri e fratelli maggiori, di trattarvi da bambinetti viziati. E cominciamo a prendervi, come meritate, a calci in culo. È l’unico modo in cui si riesce ad arrivare davvero lontano.

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