«Scrivere un nuovo libro mi ha salvato dalla morte»

Lo scrittore che ha creato l’indimenticabile Tom Booker de L’uomo che sussurrava ai cavalli e ha venduto 15 milioni di copie di quella storia ha spalle larghe, occhi d’argento e non veste affatto come un cowboy. L’inglesissimo Nicholas Evans, classe 1950, in Italia per presentare il suo quinto romanzo, Solo se avrai coraggio (Rizzoli, pagg. 396, euro 18,50, trad. di V. Zaffagnini), oltre a saper raccontare come pochi altri amori e paesaggi sconfinati, ha un immenso fascino. Accresciuto dall’esser scampato, due anni fa, a morte per avvelenamento da funghi. E dal dover subire, da allora, ogni giorno, la dialisi e l’attesa di un trapianto.
Mr. Evans, cosa le ha dato la forza di guardare avanti?
«L’alternativa: morire. Ho quattro figli e uno ha soltanto 8 anni. Non potevo pensare di lasciarlo orfano di padre. La mia famiglia. Le e-mail dei lettori. E questo libro. Quando ci siamo avvelenati, io e mia moglie, ero a metà del romanzo. Dopo sei mesi di sofferenze, non avevo nessuna voglia di continuarlo».
Che cosa l’ha convinta a farlo?
«Il mio editore mi mandò un pacco con la copertina montata sul libro di un altro. Ho capito che volevo finirlo. Ho ricominciato a scrivere e l’ho cambiato molto. Di colpo ho provato un’empatia primordiale con i personaggi. Li amavo. E mentre battevo sui tasti del computer piangevo a dirotto».
Questo romanzo è una vera storia americana, che lega Far West, Hollywood e guerra in Irak con il filo rosso dell’eroismo.
«Mentre si entrava in guerra ho visto in tv George W. Bush con cappellone e stivali che camminava come John Wayne. Era il leader del mondo occidentale, eppure si presentava come un cowboy. L’entrata in guerra è stata un errore madornale, i miei figli manifestavano contro, ma la nostra storia è intrisa di quel modello di eroismo: la forza di guardare all’orizzonte con il mito del West negli occhi ha formato intere generazioni, compresa la mia. Anch’io penso che quello sia il coraggio».
Ma nel libro gli eroi di Hollywood fanno una brutta fine.
«Gli eroi sono fallibili. E la realtà è più oscura di quella mostrata da Hollywood. Ma questa è anche una storia di virilità cocciuta e alla fine il protagonista avrà il desiderio di lasciare in eredità al nipote pistola e fondina. Non sappiamo se lo farà».
Ricorda come L’uomo che sussurrava ai cavalli divenne un film?
«Fu un colpo di fortuna. Ne scrissi una parte e la sinossi del resto, perché dovevo lavorare a una sceneggiatura tv. Il mio agente lo portò a Francoforte. Piacque a editori e tycoon del cinema.

Lo volevano tutti. Non mi spiego il perché».
Qualcosa lo lega a questo nuovo romanzo?
«C’è un personaggio simile all’uomo che sussurrava ai cavalli. Ma i cavalli non c’entrano. Ciò che li lega è la fede nelle relazioni umane».

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