Cultura e Spettacoli

Scrivi come parli. La lingua tedesca si spacca in due

Dal primo agosto è ufficiale: il tedesco non esiste più. O meglio, non esiste più come lingua unitaria della Germania. I presidenti dei due Länder di maggior peso - Baviera (il più esteso) e Renania-Westfalia (il più popoloso, con i suoi 18 milioni di abitanti) - si sono rifiutati di far entrare in vigore la riforma ortografica della lingua, in calendario appunto per l’inizio del mese. Dopo un periodo di transizione, durato ben sette anni, in cui le vecchie regole convivevano con le nuove, con l’anno scolastico 2005-2006 le innovazioni avrebbero dovuto diventare la norma in tutto il Paese. E invece per un terzo della popolazione tedesca non sarà così. Ai Länder è affidato il sistema scolastico e il risultato è che nelle classi di Monaco e Colonia saranno considerati errori espressioni giudicate corrette invece ad Amburgo e a Berlino.
La spaccatura è l’ultimo atto di una telenovela iniziata ormai più di 10 anni fa. Dopo un dibattito di lustri, una commissione trinazionale, in cui erano rappresentate le istituzioni culturali di Germania, Austria e Svizzera, ma anche minoranze linguistiche come quella altoatesina, decise che era giunto il tempo di «semplificare» la lingua, rendendo l’ortografia più simile alla pronuncia. Il principio, applicato con teutonico rigore, ha condotto anche a qualche forzatura, come nel caso dei termini stranieri, che dovrebbero, secondo la Commissione, essere scritti alla tedesca. Uno degli esempi più citati è quello della parola spaghetti: visto che in tedesco la «g» è naturalmente dura, non ha bisogno di alcuna «h» e, per gli innovatori duri e puri, dovrebbe diventare spagetti. Nel caso delle parole composte, se la prima parola termina con una consonante, questa finisce addirittura per triplicarsi (vedi Schifffahrt, navigazione).
Le parti teoricamente meno controverse della riforma sono entrate comunque in vigore nel 1998, con la previsione di un lungo periodo di «adattamento». Ma le discussioni e le polemiche hanno assunto presto un tono da stadio. Acquistando in qualche caso anche una coloritura vagamente politica, con un’ala democristiana (Cdu e Csu) di solito schierata per le vecchie regole e una sinistra che parteggia per le nuove. In occasione delle ultime elezioni, per esempio, il candidato della Cdu alla carica di presidente della Renania Westfalia Jürgen Rüttgers (poi eletto) ha fatto campagna elettorale promettendo lo stop alle innovazioni (promessa per l’appunto mantenuta).
Le resistenze di fronte a una riforma considerata inutilmente autoritaria e in qualche caso irrazionale sono state fortissime anche nel mondo dell’editoria. Nel 2000 ad aprire la strada della protesta è stata la Frankfürter Allgemeine, uno dei quotidiani più autorevoli della Germania, tornato alle vecchie regole. L’anno scorso a fare il gran rifiuto sono stati Der Spiegel (prestigioso settimanale politico) e la Bild Zeitung (diffusissimo quotidiano popolare). La maggior parte dei giornali ha scelto un compromesso (diverso da testata a testata) tra vecchio e nuovo, elaborando così un proprio codice linguistico. «La conseguenza è paradossale - spiega Hartmut Retzlaff, responsabile della cooperazione didattica al Goethe Institut di Roma -. Oggi in Germania ognuno scrive come gli pare». Della situazione il Goethe è un buon esempio: nei corsi e nei documenti ufficiali ha scelto da subito le nuove regole.

Ma nella vita di tutti i giorni quasi tutti i docenti usano le vecchie.

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