Scusi, lei che è un cronista, che tempo farà domani?

Anticipiamo un ampio stralcio del capitolo "«Lei che è un giornalista" tratto dal libro Sempre meglio che lavorare (edizioni Piemme, 218 pagine, 14,50 euro, da domani in libreria) scritto dal vicedirettore del Giornale Michele Brambilla (foto a fianco). Il libro racconta in modo ironico il mestiere del giornalista, con numerosi aneddoti e retroscena sulla vita di redazione

Scusi, lei che è un cronista, che tempo farà domani?

Anticipiamo un ampio stralcio del capitolo "«Lei che è un giornalista" tratto dal libro Sempre meglio che lavorare (edizioni Piemme, 218 pagine, 14,50 euro, da domani in libreria) scritto dal vicedirettore del Giornale Michele Brambilla (foto a fianco). Il libro racconta in modo ironico il mestiere del giornalista, con numerosi aneddoti e retroscena sulla vita di redazione

Prendiamo, ad esempio, un ingegnere nucleare. O un ragioniere. O un imbianchino. A loro non capiterà mai che in spiaggia, a un ristorante o a una cena in casa di amici qualcuno chieda una prestazione fuori orario: mi mostrerebbe sulla lavagna come avviene la fusione a freddo? Mi darebbe un’occhiata ai conti di casa? Una mano di bianco lì dove c’è una chiazza di umido?
Per noi, invece, puntuale come una cambiale in scadenza è sempre in arrivo l’immancabile richiesta di lavoro straordinario: lei che è un giornalista che cosa dice, questo governo dura o no? La domanda sulla politica è sempre la prima, ed è buona per tutte le stagioni. A seconda dei momenti storici cambia invece il tema dei quesiti successivi. Lei che è un giornalista, secondo lei il Bin Laden è ancora vivo o no? E le due torri, non le pare che la versione di Bush non stia in piedi? Secondo me la Cia sapeva tutto, e mi dica la sua anche sull’effetto serra.
C’è una diffusa convinzione che noi si sappia tutto. Spesso, in chiusura di serata, chiedono che tempo farà domani.
Ci costringono a trasformarci da intervistatori a intervistati, e non saprei se definire costoro come degli ammiratori (vista la fede che ripongono nelle nostre conoscenze) oppure degli emmerdeur, come dicono i francesi. Di certo tutti noi che lavoriamo nei giornali abbiamo imparato a riconoscerli a distanza. Ci attendono in spiaggia, appostati vicino al nostro ombrellone; si siedono accanto a noi nelle tavolate imbandite dove vorremmo passare una serata senza pensare al lavoro; e alle cene organizzate dai Rotary o dai Lions, dove siamo lì per una conferenza, cominciano a fissarci quando servono l’arrostino precotto: ci puntano e sogghignano pensando mangia, mangia che poi ti staniamo con una domandina sulla libertà di stampa, ce l’avreste mai il coraggio di scrivere qualcosa che dà fastidio ai vostri padroni?
Quando poi si stabilisce un minimo di conoscenza, l’agguato si ripete a ogni incontro, e le domande si fanno sempre più generiche. Nel senso che anche se non sanno che cosa chiederti, chiedono. Spesso si limitano a un «che cosa ci racconta?», o - peggio - un ancora più sintetico e imbarazzante «e allora?».
L’ammiratore del giornalista (o emmerdeur) dimostra in questi casi di sopravvalutare non solo le nostre conoscenze, ma anche la nostra capacità di conversazione. Ci credono intrattenitori brillanti, ma non è detto che chi sa scrivere sia anche dotato di una piacevole parlantina. Siamo abituati a esprimerci nero su bianco, ma quando siamo chiamati a un discorso - a parte i colleghi della tv - spesso diventiamo balbuzienti. È che quando scrivi non hai davanti il tuo lettore, se inciampi su uno strafalcione di grammatica o di sintassi ti puoi correggere senza fare figuracce, c’è sempre un tasto «canc» che ti salva. Quando parli no: il tuo interlocutore ce l’hai davanti, ti incalza con domande o obiezioni, ti mette in imbarazzo. Dovremmo portarci sempre appresso il computer e una stampante, e alla prima domanda sul crollo delle Borse rispondere: con permesso, vado nella stanza accanto e torno fra un’ora con settanta righe.
Mi rendo conto che ci sono altre professioni ad altissimo rischio. I medici, ad esempio. La loro vita di società dev’essere un mezzo inferno, c’è sempre qualcuno che chiede una palpatina al fegato oppure che mostra gli esami del sangue, mi dica se il rapporto fra il colesterolo buono e quello cattivo è ok. Anche agli architetti sono spesso richieste consulenze extra, lei come mi sistemerebbe il soggiorno? Mia moglie fa l’ostetrica, c’è sempre qualcuno che le chiede un parere su cesareo o epidurale, e una sera una donna si è sbottonata la camicia e le ha detto: sto allattando e temo che mi venga una mastite, mi sbloccherebbe l’ingorgo con un massaggio?
Scrocconi della prestazione senza parcella, ecco che cosa sono certi conoscenti e/o improvvisati interlocutori; e certamente tra le vittime di queste consulenze a sbafo ci sono professionisti più sfruttati di noi giornalisti. D’accordo.
Però a medici, architetti, ostetriche eccetera vengono posti quesiti ai quali essi sono in grado di rispondere. A noi giornalisti, invece, si fanno domande che ci lasciano basiti, incapaci di abbozzare una pur pallida risposta. Che ne sappiamo noi di quando cadrà il governo? Se non c’è scritto sui giornali, vuol dire che pure noi non ne abbiamo idea. Ma molti ci credono depositari di un secondo livello di conoscenza, un livello segreto che sui giornali non può (o non deve) apparire. Ci chiedono: ma lei che ha scritto di quella faccenda, come stanno veramente le cose? Veramente: come dire, quel che pubblicate sono tutte balle, la verità ve la tenete per voi, adesso che siamo qua io e lei e non ci sente nessuno sputi il rospo.
Ma la domanda clou, la domanda che ti stende, è quella che di solito viene utilizzata o come approccio, o come stoccata finale, ciliegina sulla torta: «Lei che è un giornalista, che cosa pensa della situazione attuale?» La «situazione attuale», ovvero l’universo mondo, lo scibile umano, tutto e il contrario di tutto. E cosa volete rispondere a uno che vi pone un simile quesito? In quei momenti vien solo da maledire se stessi per non essersi presentati con un: piacere, nome e cognome, impresario di pompe funebri.
È uno strano destino, il nostro. Da un certo punto di vista, non godiamo di buona fama. (...)
Eppure, quando si fa un sondaggio tra i giovani per sapere quali sono i mestieri più ambiti, quello del giornalista è sempre ai primi posti. Come mai? Forse perché si diceva che chi fa quel lavoro gira il mondo? Non credo (...) Ormai il mondo lo girano tutti, basta entrare in un’agenzia di viaggi e avere cinque o seicento euro per una settimana tutto compreso.
Che siano forse gli stipendi, ad allettare? Ma va. Una volta, forse. Come si legge ne La stampa del regime fascista di Paolo Murialdi (edito da Laterza, è una specie di Cassazione, in materia) nel 1935, più o meno quando in Italia si cantava se potessi avere mille lire al mese, un giornalista appena assunto al Corriere della Sera guadagnava da 1.800 a 2.000 lire al mese; i redattori anziani erano sulle 2.500 lire; il caporedattore prendeva 17.000 lire; il direttore 30.000 lire al mese più altre 10.000 di «indennità». Quando fui assunto al Corriere, alla metà degli anni Ottanta, i vecchi cronisti raccontavano che ancora all’inizio degli anni ’60 si consideravano dei signori perché con uno stipendio potevano comperarsi una Seicento. Oggi con lo stipendio di un cronista non compri neanche uno scooter.


Chissà: forse ad attrarre è proprio la prospettiva di quella mini-popolarità da trattoria, l’essere interrotti, al momento degli spaghetti, da un «lei che è un giornalista… ». Fai finta di maledire lo scocciatore, ma sotto sotto ti senti qualcuno.

Leggi "Un mestiere disprezzato ma invidiato" di Stefano Lorenzetto 

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