Se Don Giovanni diventa Zequila

Avviso ai lettori: non scrivo in qualità di assessore alla Cultura del Comune di Milano. Però, sono assessore alla Cultura del Comune di Milano. E affronto un tema culturale che conosco per necessità, per passione e anche per mestiere avendo, sulla base delle mie esperienze, delle mie convinzioni e delle mie conoscenze, messo in scena, come regista e, in parte, scenografo, due opere liriche, Rigoletto e L’Arlesiana, con realizzazioni variamente apprezzate. Una di queste, L’Arlesiana, sarà fra breve allestita a Mantova. Nell’altra, il protagonista era Carlos Alvarez. Lo ricordo perché lo ritroviamo, come interprete, nel Don Giovanni in scena alla Scala, a Milano dunque, anche stasera. E proprio di questo intendo parlare.
Senza entrare nell’interpretazione musicale, della quale peraltro ha riferito in modo positivo Carla Moreni sul Sole 24 Ore di ieri, e, da assessore, me ne compiaccio, voglio fare alcune osservazioni sulla regia di Peter Mussbach, già efficacemente stigmatizzata su questo giornale da Lorenzo Arruga. Si può dunque convenire con la Moreni che il buon esito musicale della serata si deve ai cantanti. Il resto, cioè quello che si vede, è doppiamente osceno. Osceno per il gusto, per lo stravolgimento del testo, per il tradimento dello spirito di Mozart, per l’assenza di una, qualsivoglia, morale. Nell’ultima interpretazione di Strehler alla Scala nel 1999, e quindi nel secolo scorso, Don Giovanni era condannato come figura negativa, cattivo verso gli uomini e verso la società, oltre che infedele alle donne, un’interpretazione che non condividevo, ma coerente, accettabile. Io credo che Don Giovanni sia un eroe positivo in senso illuministico, che sia un eroe della ragione contro la superstizione, che sia la forza della vita contro la forma. E, in questo senso, la sua negatività sia un valore dell’uomo contro Dio.
Un Dio non negato ma contraddetto, soprattutto se la sua presenza passa attraverso la statua parlante del Commendatore. Basti osservare che, nel sestetto finale, quando i sopravvissuti mostrano di esultare dopo la sua scomparsa, sparizione prima che morte, c’è l’infinita malinconia della perdita di senso. Cosa faranno Leporello (dove troverà «padron miglior»?), Donna Elvira, Donna Anna, Don Ottavio, Zerlina, Masetto, senza di lui? La loro esistenza era tutta per e contro quella di Don Giovanni. Senza di lui, anche il Commendatore perde senso. Quindi perfino Dio non saprà più chi punire. In questa lettura non vi è spazio per lo scherzo facile e la superficialità. Non si può concepire che Leporello giri con un ombrellino bianco indicando sul muro nomi di donne conquistate che non ci sono senza neppure l’ombra del «non picciol libro», indicato dal Da Ponte come diario delle imprese di Don Giovanni nelle mani di Leporello. Non si possono vestire i personaggi con grotteschi gessati da gangster americani mostrandoli a petto nudo, senza camicia. Non si può far arrivare da dietro l’angolo di un muro semovente Donna Elvira a cavallo di una Vespa (avete letto bene «Vespa» Piaggio) per accingersi, magari, a battere. E, soprattutto, non si può, con continue esibizioni, moltiplicare gli atti sessuali estendendoli a tutto il coro. Se scopano tutti, dov’è la trasgressione di Don Giovanni? E perché dev’essere punito lui solo? Sappiamo inoltre, dalla buona lettura del testo di Lorenzo Da Ponte, ma anche dalle interpretazioni più autorevoli, come quella di Giovanni Macchia, che Don Giovanni per la durata dell’azione nell’intera opera, anche se non in tutta la vita, sperabilmente, non arriva mai a concludere (forse neppure nel «casinetto» con Zerlina) un atto sessuale. Manifesta anche, in uno sfogo con Leporello, il disappunto per gli imprevedibili ostacoli alle sue nuove conquiste: per una ragione o per l’altra gli vanno male tutte quante, qualcuno arriva sempre a disturbare o a interromperlo. È la forza di Mozart, probabilmente concordata con Da Ponte per restituire la sensazione di una energia, di una vitalità nel vuoto, come valore assoluto, non tanto e non soltanto per il puro piacere erotico. È vitalità, la vita contro la forma, appunto. Come mai allora, nella prima scena Donna Anna lo cavalca, sta sopra di lui, esplicitamente mimando l’atto sessuale? Come mai Mussbach ha bisogno di rendere esplicito, concreto quello che Mozart e Da Ponte hanno deliberatamente alluso? Cercando di mostrare un Don Giovanni in difficoltà e rallentandone quei progressi in amore che gli avrebbero consentito di accrescere la sua lista? Anche per questo c’è certamente una ragione. Se, negli anni, egli ha accumulato conquiste: «In Italia seicentoquaranta, cento in Francia, in Turchia novantuno, ma in Ispagna son già milletré», nei suoi giorni estremi, quelli illustrati nell’opera, le difficoltà a concludere i nuovi incontri, gli equivoci e le avventure difficili sono certamente un presagio della fine, una drammatizzazione che non può essere né trasformata, né banalizzata. E la ragione è il demone che agita Don Giovanni e lo costringe a sempre nuove sfide, mentre l’altro protagonista dell’opera è la morte. E lo scontro finale con la triplice negazione all’esortazione a pentirsi è, propriamente, con un morto, con il Commendatore, anzi con la sua statua che riacquista la parola per una materializzazione dell’aldilà, di quel Dio negato che Don Giovanni rifiuta di credere, anche di fronte all’evidenza della sua apparizione. Mentre non si stupisce che la statua parli, egli non patisce la paura, non si terrorizza come Leporello, affronta l’ignoto e ne rifiuta le imperiose richieste: «Pentiti!». «No!». «Pentiti!». «No». «Pentiti!». «No!». Egli non si pente e non si pentirà mai. Precipiterà nell’inferno non riconoscendo i suoi peccati. Egli non è né un peccatore né un dissoluto. Egli è la vita contro la morte. Ha vissuto per vivere, non per morire, accettando regole che ne mortificassero i piaceri nella prospettiva di un aldilà che non esiste. E nel quale egli non crede neppure di fronte a una troppo stravagante evidenza. Tutto questo richiede una regia di pensiero, di intelligenza, di interpretazione delle idee di Da Ponte e di Mozart. E non l’esibizione di un bordello e la riduzione di Don Giovanni a una macchietta, a una caricatura, a un bullo di periferia e neppure a un playboy da rotocalco. I modelli di Mussbach sono corrispondenti ai nostri Raz Degan e Antonio Zequila. Rispettabilissimi nel mondo delle discoteche e pertinenti al Billionaire, non all’età dell’illuminismo. Per questo il regista e il critico d’arte esprime il suo disappunto e la sua censura sul piano del confronto delle idee con un regista tedesco che già si fece riconoscere per aver ambientato la Carmen al Polo Nord (!).

E l’assessore si dispiace e osserva con preoccupazione la decadenza dei costumi in una delle grandi città dell’illuminismo, dentro il tempio della cultura musicale italiana. Nella Milano di Cesare Beccaria, di Pietro Verri e Alessandro Manzoni.

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