Se il giovane attore si mette a danzare per il «suo» Amleto

Qualche anno fa, su un piccolo palcoscenico toscano che ospitava le semifinali del Premio «Dante Cappelletti», Lorenzo Gleijeses mostrò a pubblico e addetti ai lavori un originale lavoro sull’Amleto dove erano riconoscibili le tracce di un ferreo allenamento fisico, appreso in seno all’Odin Teatret di Eugenio Barba, e insieme l’evocazione testuale di autori partenopei come Annibale Ruccello, Enzo Moscato, passando poi per le ombreggiature grottesche di Totò e le pulsioni rituali legate a un certo immaginario calcistico. Quello studio, sorretto dalla supervisione scrupolosa di Julia Varley (membro storico dell’Odin), è poi diventato spettacolo e ha portato il giovane attore (figlio di Geppy Gleijeses) a vincere un Premio Ubu come miglior interprete italiano under 30. Adesso Il figlio di Gertrude arriva al teatro India (solo domani alle 20), inserito in una rassegna «personale» che prevede sia un ciclo di seminari e dimostrazioni condotto dalla stessa Varley sia il debutto romano in un nuovo spettacolo, L’esausto o il profondo azzurro, in cartellone la prossima settimana (dal 9 al 14). Dunque, di questo fenomenale attore/autore/danzatore invaghito dell’antropologia e del teatro «euroasiano», sentiremo molto parlare: corpo statuario, mimica esasperata, attenzione maniacale a ogni minimo gesto, occhi luminosi, Lorenzo Gleijeses, è un artista serio, che reputa più importante il processo dell’evento. Così è successo d’altronde anche per L’esausto, un lavoro in bilico tra danza e teatro che fuoriesce dai binari del monologo per intercettare il contributo espressivo del danzatore Manolo Muoio e che parte da lontano: da una lunga serie, cioè, di esercitazioni/improvvisazioni sul tema dell’uomo e della sua ombra approdate a incontrare Beckett.

«La mia attenzione - spiega Gleijeses - è stata attratta soprattutto dalla sua produzione finale, dove il delirio dell’isolamento causa una proliferazione di invenzioni mentali». Evocate qui in uno spazio interiore che coincide appunto con «la stanza dell’esausto».

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