Se a Ground Zero si cancellano i simboli

Non rinascerà il ristorante che dominava New York dalle Torri: la normalità della vita quotidiana è stata sconfitta dalla paura. La Freedom Tower sarà un mausoleo: ricordo della morte e non dello spirito americano

Se a Ground Zero si cancellano i simboli

Lassù non ci sarà normalità. Né stoviglie che stridono, né posa­te che tintinnano. Niente parole e niente risate. La nostra quotidiani­tà cancellata dal monumento alla rinascita dopo la vergogna dell’11 settembre 2001. Abbiamo perso. Sconfitti dalla paura e dal pudore. «Non ci sarà nessun ristorante al­l’ultimo piano della Freedom Tower. Non costruiremo progetti vanitosi in cima agli edifici». È una resa definitiva: il grattacielo che sostituirà le Torri gemelle avreb­be dovuto avere un nuovo Win­dows on the world, il ristorante simbolo della grandezza del­l’America e dell’Occidente. Non lo avrà. Hanno deciso di no, han­n­o preferito non essere ambiziosa­mente normali.

Perché questo avrebbe significato riportare un ri­storante in cima al mondo: essere più forti della violenza e della catti­veria. Hanno voluto sfidare i nu­meri immaginando la torre più al­ta del pianeta. Hanno deciso di provocare la fisica disegnando una forma contemporanea e stiliz­zata della Statua della Libertà con la quale la Freedom Tower si parle­rà a distanza nel cielo di New York. Hanno deciso di spingersi ol­tre ogni limite, ma non di portare lassù la nostra strabenedetta quo­tidianità. Mestoli, tovaglie, grissi­ni, piatti, lavapiatti, camerieri, chef, clienti e turisti. Ci tengono giù a terra, come se avessero paura di farci rivedere il mondo dal cielo sopra il cimitero più grande del pianeta. Ground Zero avrà una moschea, ma il fi­glio delle Twin Towers non avrà un ristorante.

Abbiamo abdicato, abbiamo ceduto, abbiamo smarri­to la nostra identità. Perché in un ristorante che non è solo un risto­rante c’è una fetta della nostra ci­viltà: la voglia di esserci, la dignità del sorriso, la grinta del lavoro. C’è il capitalismo, c’è consumi­smo. C’è vita. Hanno preferito ri­cordare la morte. Come a dire che si fa rinascere un luogo per render­lo un mausoleo. Che senso ha? Il Windows on the world era una me­raviglia. Era l’essenza delle Torri gemelle,perché sotto c’erano uffi­ci e basta, mentre lì c’era la possibi­lità per tutti di raggiungere la fine­stra più alta del mondo. Da lassù si mordeva la Grande Mela: lo fa­ceva il manager in doppiopetto e il bambino che aveva appena com­prato un cappellino dei New York Yankees sulla bancarella all’incro­cio tra Broadway e Wall Street. Era la possibilità di chiunque di esse­re al centro del centro del centro potendolo vedere dall’alto.

Dieci anni hanno stuprato gli edifici, ma non hanno cancellato i ricordi e le sensazioni: vedere l’Empire State Building come una specie di grissino che spuntava lì in direzio­ne Nord, allungarsi con lo sguar­do fino alla macchia verde di Cen­tral Park,spostarsi un po’ più a Est per fermarsi sulle guglie luccican­ti del Chrysler. Palazzi, sì. Palazzi, cemento, vetro: progresso, civiltà, futuro, fatica, successo. Un risto­rante come terrazza su una città universale, allegoria della moder­nità e del nostro modo di vivere. Perché non rifarlo? Perché ab­bandonare un progetto così? Una volta chiesero a Minoru Yama­saki, il progettista delle Twin Towers, perché avesse deciso di costruire due grattacieli identici di 415 metri e non uno da novecen­to o mille: «Perché non volevo per­dere la dimensione delle cose umane, il fine dell’architettura è creare un’atmosfe­ra in cui l’uomo può vivere, lavora­re, essere felice».

Chi arrivava sotto le Torri gemelle aveva la sensazio­ne opposta: sem­bravano il contra­rio dell’umanità, poi però entrava, premeva il pulsan­te del piano 107 e scopriva che in ci­ma alla Terra c’era un micromondo che rappresentava perfettamente il macromondo che aveva lasciato po­co prima. C’erano classi sociali, c’era lavoro, c’era ripo­so, c’era serenità, c’erano litigi. C’era tutto a dimensioni ridotte e da una prospettiva diver­sa. Togliere il ristorante dal nuovo progetto significa desistere: am­mettere che non ci può essere di­mensione umana in un palazzo che può diventare di nuovo obiet­tivo di un kamikaze vigliacco, che piomba dal nulla in una mattina e che lascia un cratere con i corpi sbriciolati e carbonizzati di quasi tremila persone.Sembra che l’Oc­cidente abbia un pudore tutto suo a riprendersi il futuro: è qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all’islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Abbiamo visto due aerei schiantarsi su New York, abbia­mo seppellito i morti, abbiamo pu­lito la polvere che ricopriva ground zero.

Ci siamo pro­messi che nulla sa­rebbe stato come prima, che nessu­no avrebbe consi­derat­o quello un at­tacco solo all’Ame­rica. Poi abbiamo detto: è ora di rico­minciare. La Free­dom-Tower è rima­sta un’ipotesi carta­cea fino a quando le gru hanno co­minciato a rimette­re su mattoni, ce­mento, ferro e ve­tro. Tutto quello che c’era nelle Twins e che adesso torna al suo posto, sotto forma diver­sa. Per ricordare, hanno detto. Per non dimenticare, hanno aggiun­to.

Manca il passaggio in più, quel­lo che non ti mette in pari con la coscienza, ma che ti racconta chi puoi ancora essere dopo esserti asciugato le lacrime. Un ristoran­te era la risposta. Banale, ovvia, perfetta. Non l’avremo. Rimarre­mo a terra, perché lassù non ci sa­rà niente di più di un ricordo.

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