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«Se Hamas vince le elezioni sarà suo diritto governare»

Il premier palestinese Abu Ala: «I divieti di Israele sono inutili: democrazia vuole che sia il popolo a decidere. Conto sulla compattezza di Fatah per battere gli estremisti»

Luciano Gulli

nostro inviato ad Abu Dis (Gerusalemme)

Una vasta villa a tre piani rivestita di granito rosa. Nel cortile, superato il pesante cancello di ferro, un manipolo di tirapiedi, guardie del corpo, postulanti ingiubbonati, la testa incassata nelle spalle per difendersi dai piovaschi e dal vento gelido che batte la Galilea. Abu Ala, il sessantasettenne primo ministro palestinese, fa gli onori di casa nell’enorme salotto al primo piano. È l’Aid al Adha, la festa del sacrificio. L’aroma del montone arrosto si spande per l’aria, e i maggiorenti locali sono venuti a rendere omaggio a sua eccellenza, a chiederne il consiglio, a garantirgli fedeltà. Il tè scorre a fiumi, tre vassoi colmi di dolcetti al miele, ripieni di graniglia al pistacchio, fanno il giro del salotto. Abu Ala ascolta, suggerisce, blandisce, ringrazia. Poi si calca un colbacco di astrakan sul capo e si alza. È il segnale. L’udienza è finita. Nel cortile lo aspetta una fiammante Mercedes di colore blu. È atteso a Ramallah. Una delicata riunione politica alla quale non può mancare. «Auguri, presidente», lo felicitano in coro.
Entro domenica Abu Ala (nome di battaglia di Ahmed Qurei) dovrà comunicare se intende partecipare alle prime elezioni politiche del dopo Arafat. La sua gens lo supplica di accettare la candidatura. Lui alza una mano benedicente sulla folla, sorride, ringrazia, rievocando con una battuta gli anni trascorsi in esilio, prima a Beirut e poi a Tunisi con Arafat. Dalla sua casa di Abu Dis, il sobborgo di Gerusalemme che secondo gli accordi di Oslo sarebbe dovuto diventare la capitale dello Stato palestinese, il «muro» dista forse un centinaio di metri. Un muro che da almeno due anni ha spaccato in due Abu Dis. «Israele lo ha eretto, e Israele dovrà abbatterlo», dice Abu Ala indicandolo a braccio teso.
Sarà. Intanto gli israeliani continuano a costruirne altri tratti...
«Ma sanno bene che stanno solo aggravando e incancrenendo un problema. La costruzione del muro, di per sé intollerabile, toglie libertà ai palestinesi e ne danneggia fortemente l’economia. Ma crea anche dei riflessi negativi per gli israeliani. Sul piano pratico, sul piano dell’immagine internazionale, su quello politico. Sarà il mondo a giudicare il loro comportamento. E il mondo ha già detto che il muro è un ostacolo al processo di pace».
Come le colonie, del resto.
«Già. Ma io mi chiedo come si può arrivare a una pace onorevole quando la terra che ti appartiene si trova nel pugno di ferro di altri».
Ehud Olmert potrebbe rivelarsi più flessibile, imprimendo un’accelerazione alla svolta voluta da Sharon con l’abbandono di Gaza. Lo ritiene un interlocutore affidabile?
«Non è importante sapere chi sarà chiamato a guidare Israele. Dialogheremo con chiunque sarà scelto dal popolo. Se sarà Olmert, tratteremo con lui. Ma anche se Sharon dovesse riprendersi, e tornare al potere, le nostre posizioni non muterebbero».
Israele intende proibire ai candidati di Hamas di fare campagna a Gerusalemme est. Proprio ora che i dirigenti di Hamas hanno deciso di espungere dal loro programma l’eliminazione dello Stato d’Israele. Gli israeliani non rischiano, con la loro intransigenza, di segnare un autogol?
«C’è una premessa indispensabile da fare. Gerusalemme è un pezzo di Palestina. E queste sono le nostre sacrosante elezioni. Il popolo che andrà alle urne ha tutto il diritto di scegliere i candidati che vuole. O non è questa la democrazia?».
I dirigenti di Hamas puntano ad agguantare il potere, e i sondaggi dicono che potrebbero farcela. Mentre Al Fatah, divisa e frammentata al suo interno, potrebbe spianare loro la strada. Lei pensa che stia davvero per finire un’epoca?
«Gliel’ho detto. Le regole del gioco democratico vanno rispettate. Questo è un fatto, al di là delle posizioni e dei desideri di ciascuno. Intanto vediamo se davvero Hamas vincerà. Molto dipenderà dalla partecipazione degli elettori, ma anche dalla compattezza di Al Fatah, che resta la guida storica dei palestinesi».
Lei parla da moderato. Ma da Gaza si continuano a sparare missili su Israele, e le milizie armate, divise tra delinquenza comune ed empiti fondamentalisti, alimentano il caos.
«La sicurezza è uno dei punti principali del nostro programma. Sulle milizie armate la nostra posizione è netta. Il popolo palestinese ha bisogno di stabilità e di quiete.

Chi colpisce Israele non fa l’interesse della nostra gente».

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