Ammiro ma non condivido limpassibilità ottimista che ha presieduto alla stesura del trattatello Storia e destino (Einaudi, pagg. 109, euro 8) di Aldo Schiavone. Il testo, dindubbio valore anche stilistico, appare diviso in due parti: la prima, dal carattere di alta divulgazione, è una storia «a tappe» delluniverso, della natura e delle specie viventi dallinizio fino ai giorni nostri; la seconda, creativa e avventurosa, traccia il percorso della società umana verso quello che lautore ritiene «un nuovo umanesimo» fondato sulla scienza e la tecnica.
Parallelamente a questo processo sarebbe stato forse opportuno trattare brevemente del Weltschmerz, il «dolore del mondo», sparso lungo il cammino di quel che comunemente si chiama progresso. Questa condizione di continua sofferenza dellumanità rende inevitabile una domanda: è stato giusto inseguire quel progresso costato nefandezze dogni genere? Ed è possibile prefigurare «un nuovo umanesimo» senza accentuarne, accanto allesplosione tecnologica, il carattere necessariamente etico e culturale? Cosa ce ne faremo di una società ultraprogredita tecnologicamente, se luomo continuerà ad agire per pulsioni egocentriche?
Ma rendiamo più espliciti questi dubbi riferendoli a formulazioni dellautore stesso. Certo la parola tecnologia ha un significato più ampio di ciò che abitualmente sintende: il senso di essa, che Schiavone chiarisce bene, è lintervento dellintelligenza sulla «naturalità» dellevoluzione e quindi lartificializzazione programmata di ciò che è stato finora considerato naturale: «Ci stiamo muovendo verso una storia della vita orientata dallintelligenza e non più dallevoluzione. Siamo sul punto di staccare completamente lumano dalla naturalità della specie» (pag. 70). Ma lobiezione a questo concetto è riassumibile con una sola domanda: tale modificazione tecnica di qualsiasi patrimonio naturale è sempre un miglioramento delle condizioni materiali ma anche spirituali e culturali della specie o, al contrario, può provocare epocali catastrofi e sinistre modificazioni genetiche?
E ancora, parole dellautore: «È la tecnica, con la rete di poteri che più immediatamente lattraversa, a decidere senza mediazioni, le forme della vita che ci è concesso di vivere... È lei che determina la qualità dei nostri bisogni e dei nostri desideri» (pag. 89). Non sembra a Schiavone che queste sue parole siano in contrasto con il tono profetico con il quale egli annunzia di aver scritto il manifesto di un «nuovo umanesimo» fondato sulla presunta saggezza di coloro cui sono affidate le scelte tecnologiche? Egli parla inoltre dellavvenuta omologazione culturale di massa, quasi fosse un incremento della velocità della tecnicizzazione estrema dellesistenza, mentre è possibile ritenere che tale massificazione a basso livello della cultura umanistica (facilmente verificabile nella decadenza dei valori umanistici nelle scuole, nelle università, nelleditoria, a vantaggio della tecnica) finisce per ottundere non solo la sensibilità, ma anche lapertura mentale della collettività.
Non è forse pensando alla necessità di una forte componente filosofico-letteraria, accanto a quella tecnologica e sociologica, che il poeta latino Lucrezio identifica il summum cacumen del progresso proprio nella filosofia, e in particolare nella filosofia epicurea? Del resto non ha Schiavone stesso intravisto il pericolo autocratico insito in una tecnocrazia di élites «scientifiche», cioè in una casta di iniziati che rischiano di diventare sacerdoti di una nuova teocrazia, il cui demiurgo potrebbe identificarsi con un supercomputer centrale e la creazione di unonnipotente intelligenza artificiale? Anche a ciò che lautore sostiene sulla obsolescenza delle certezze «naturali» è necessario contrapporre dei «distinguo»: è stato davvero, lo schiavismo, un modo considerato «naturale» da Aristotele fino alla guerra civile americana? Io credo che la teorizzazione positiva della schiavitù sia dovuta soprattutto alluso estremamente proficuo di essa, mentre dalle coscienze più evolute e «umaniste» tale considerazione sia stata consapevolmente inscritta nelleconomia, ma non certo nelletica e nella cultura. Prove evidenti di ciò sono i sempre più numerosi casi di manumissio, cioè di liberazione degli schiavi, spesso addirittura ammessi allintimità degli ex padroni: esempi famosi sono il commediografo Terenzio nel circolo degli Scipioni, lo schiavo Tirone, liberato e divenuto amico di Cicerone e, molto più avanti, la promozione dei liberti a posti di rilievo ed esecutivi anche nella corte imperiale. E come considerare le strampalate ma inequivocabili dichiarazioni di uguaglianza fra tutti gli uomini, fatte da Trimalchione nel Satyricon di Petronio?
Ultimo motivo di dissenso dal pensiero dellautore è quello della relatività o persistenza dei sentimenti. A pag. 76 è scritto: «lamore di Saffo e di Catullo non è quello di cui scrivono Hegel, Leopardi, Thomas Mann». Non si capisce intanto cosa sintende con quello «scrivono». Si parla comunque damore: ebbene io credo che i sentimenti (ad esempio, il terrore, la gioia, il piacere del gioco, lamore dei figli, propri anche degli animali) siano immutabili nella sostanza, anche se ne mutano i modi e le manifestazioni.
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