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Se i tagli sono una nuova sfida

Sono giustificati i tamburi di guerra di molti esponenti politici e rappresentanti di vari settori contro i tagli del ministro Tremonti, contenuti nella manovra economica in approvazione in questi giorni?
Chi osservi il sistema italiano, anche prescindendo dal noto rapporto debito-Pil, vede alcune apparenti contraddittorie situazioni. La spesa pubblica per i servizi sociali, in percentuale sul Pil, è superiore in Italia rispetto ai principali Paesi europei, ma sta crescendo la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Siamo il quarto Paese nell'Ocse per spesa per l'istruzione fino alla secondaria, ma la qualità della scuola italiana continua a peggiorare. La spesa per la sanità in Italia è in linea con quella dei Paesi più sviluppati, ma, se si eccettuano alcune Regioni virtuose, il rapporto risorse impiegate-qualità del servizio lascia spesso a desiderare. La spesa per le pensioni in Italia, rispetto al totale della spesa sociale, è molto più elevata se paragonata alla media europea, ma si dubita di poter assicurare la pensione alle generazioni future. E parlando del sistema produttivo, mentre l'impresa italiana continua ad aumentare la sua capacità di esportazione, il Pil non cresce. Perché?
Quello che si dimentica, quando si è toccati in prima persona, è che lo statalismo centralista che affligge l'Italia significa rendita: politica di chi moltiplica i dipendenti pubblici e i finanziamenti a pioggia per assicurarsi il consenso; sindacale e associativa, di chi, nel corso degli anni, ha costruito privilegi per le sue corporazioni; di comodo, in chi rifiuta di essere valutato per quel che fa; da oligopolio, per le imprese decotte protette in modo artificioso. In diversi settori si spende male: si maschera come spesa per lo sviluppo e la solidarietà la spesa per alimentare la rendita, con il risultato che ad aumenti di spesa si associa un aumento dell'inefficienza e dell'iniquità. Certo, semplicemente tagliare non può bastare.

Può però essere salutare se, mossi dalla necessità, si è spinti a una rivoluzione culturale che rifiuti lo statalismo e sposi il merito, l'iniziativa personale, la competizione virtuosa, la valutazione, la sussidiarietà, la costruzione di reti dal basso, la possibilità di reperire fondi privati per realtà pubbliche e soprattutto una nuova idealità che senta il bene comune come parte del proprio interesse. È una sfida che non possiamo rimandare perché perdendo tutto il Paese perderà anche la nostra vita personale, familiare, sociale.
Giorgio Vittadini
Presidente Fondazione
per la Sussidiarietà

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