Al padre di March è toccato portare cartella e impermeabile e frequentare lezioni di matematica per sei mesi. Seduto accanto al figlio, all’università di Hong Kong, perché il suo March ha cominciato a frequentarla a nove anni. Non poteva farlo andare da solo. Non che March fosse troppo contento: alla fine della sua prima lezione di analisi aveva già liquidato l’ateneo. «Queste cose le avevo già studiate due anni fa». Piccolo genio, March, come tantissimi altri: sempre di più, almeno cinque su cento in Italia. In media uno per classe. E le stime sono per difetto: perché non è sempre facile riconoscere il talento precoce, il prodigio è spesso incompreso. Ma incompresi sono pure i genitori, a volte, tanto che hanno bisogno d’aiuto: per sostenere senza esagerare, per capire e non frustrare. E magari per non sentirsi troppo inadeguati, visto che il mestiere è già abbastanza difficile. Il padre del piccolo March, per esempio: come si sarà sentito accanto al figlio saputone, e quante volte si sarà chiesto se ha fatto la cosa giusta? Basta sedergli accanto a lezione per assicurarsi di non averlo buttato in un oceano troppo più grande di lui?
Dicono gli esperti che trovarsi un figlio bravo sia il sogno di tutti, ma un genio no: quello fa paura. Lì per lì magari riempie d’orgoglio, ma poi si rischia di cadere in un infinito di passi falsi. Non è uno scherzo, tanto che è nata una rete universitaria dedicata ai bimbi prodigio e a chi sta loro accanto, professori, genitori, psicologi. Presentata oggi all’università Bocconi di Milano, «Rete Ulisse» è anche collegata a un corso di formazione per gli insegnanti organizzato dall’Associazione italiana per lo sviluppo del talento e della plusdotazione. Gli studiosi li chiamano così: plusdotati, iperdotati, superdotati. Genio forse è parola troppo leggera: bisogna far capire che, dietro capacità fuori dalla norma, c’è il pericolo di rubare un’infanzia. Di trasformarsi da genitori a manager oppressivi, da mamme e papà affettuosi e giustamente fieri a organizzatori maniacali dei successi del figlio. Oppure da famigliole spensierate a coppie frustrate, perché quel cervello è troppo veloce, troppo difficile da capire, un mondo troppo lontano che si può solo sfiorare ma a volte così esclusivo da diventare una prigione. Questi bambini rischiano l’isolamento, l’emarginazione, il pregiudizio: le prese in giro dei compagni; gli insegnanti che scambiano la loro noia sui banchi per scarsa voglia di studiare; perfino l’abbandono della scuola e il ricorso agli psicofarmaci, nei casi più gravi. E allora prima di esultare per i progressi strabilianti del piccolo di casa, i genitori devono attrezzarsi. Non iscriverlo subito a un test per il quoziente intellettivo, non considerare il genietto un fenomeno da baraccone, non lasciarlo in preda agli squali, non etichettarlo. Già Jodie Foster, ex bimba prodigio, nel film Il mio piccolo genio spiegava che non è facile comprendere un figlio così, e stargli accanto. Ma perché poi se un figlio non è un portento è facile? E poi, anche se tutto filasse liscio, i genitori non devono farsi prendere dallo sconforto della loro inferiorità. Se un ragazzino a 12 anni corregge l’Enciclopedia britannica, chissà quante inesattezze scoverà nei discorsi a tavola. Ma soprattutto come faranno mamma e papà a non abusare delle doti del figlio per farne una macchina da soldi o per gonfiarsi l’ego?
La pressione non finisce mai. Madri e padri non hanno tregua nemmeno con un super-bimbo. Facile approfittare, facile non capire, facile finire bacchettati dallo psicologo. Se però il figlio è un genio non dovrebbero essere soltanto guai. Qualche soddisfazione ci sarà pure, a veder crescere in casa propria un talento della musica, della matematica, del computer, della pittura.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.