Cronache

Se nell’Fbi del giornalismo c’è Federico Gatti Un cronista italiano che non doveva nascere

Dopo 18 anni di matrimonio, sua madre chiese a Papa Giovanni XXIII di concederle la grazia di un figlio. Che ora è l’unico italiano ammesso nel Bureau of investigative journalism con sede a Londra. Ha vinto il Thompson Reuters per le sue inchieste su truffe e sprechi dell’Unione europea

Se nell’Fbi del giornalismo c’è Federico Gatti 
Un cronista italiano che non doveva nascere

Provate a scorrere le notizie riportate qui di seguito e chiedetevi su quale giornale italiano vi è già capitato di leggerle. Dal 2006 al 2010 i componenti della Commissione europea hanno bruciato oltre 7,5 milioni di euro per viaggi a bordo di jet privati. Il presidente José Manuel Barroso e otto suoi assistenti hanno speso ben 28.000 euro per quattro notti al New York Peninsula hotel. Nel 2009 la Commissione ha finanziato soggiorni per dipendenti e familiari in resort a cinque stelle in Papua Nuova Guinea e Ghana. La delegazione vietnamita giunta a spese della Ue nel lussuoso Palm Garden Resort di Hoi An per un evento teso ad «aiutare la cooperazione interna» era composta da 44 persone. Nel 2009 più di 300.000 euro sono stati spesi per «cocktail parties»; quello organizzato ad Amsterdam dalla Rea, l’Agenzia esecutiva per la ricerca, costato da solo un quarto degli stanziamenti, cioè 75.000 euro, era così presentato: «Una notte che vi stupirà come nessun’altra. Tecnologia all’avanguardia, arte dalle sfumature stimolanti mischiata a cocktail di tendenza, performance mozzafiato e top disc jockey». Il tutto mentre Bruxelles ordinava agli Stati membri sull’orlo della bancarotta di ridurre il debito pubblico e stringere la cinghia.

Se vi pare di non averle mai lette, queste notizie, forse dipende dal fatto che sulla stampa nazionale non sono mai apparse. Di sicuro non conoscete il giornalista che le ha scovate. Si chiama Federico Gatti, è nato il 22 dicembre 1983 a Milano, ha una laurea in comunicazione internazionale conseguita alla Statale, fa il giornalista da quando aveva 20 anni ed è l’unico italiano che lavora al Bureau of investigative journalism di Londra. Il che, in teoria, lo rende idoneo ad assumere, fra un quarto di secolo o giù di lì, la direzione del New York Times, visto che nei giorni scorsi il prestigioso quotidiano della famiglia Sulzberger è stato affidato a una donna di 57 anni, Jill Abramson, che si fregia del titolo di «giornalista investigativa».
Il Bureau è un’organizzazione non profit che realizza inchieste giornalistiche per i media internazionali: Independent, Financial Times, Observer, Monde, Bbc, Channel 4. È stato fondato nell’aprile del 2010 dalla David and Elaine Potter foundation. David Potter è un sudafricano che ha fatto fortuna con la società di microcomputer Psion; la moglie Elaine è stata per anni giornalista del Sunday Times. Fino a oggi hanno donato più di 10 milioni di sterline a istituti di beneficenza del Regno Unito. Il direttore del Bureau, Iain Overton, inglese, classe 1973, nonostante la giovane età ha lavorato in ben 85 Paesi e le sue inchieste hanno fatto incetta di premi internazionali.

A soli 27 anni Gatti sembra avviato sulle orme del suo capo: ha appena vinto il Thompson Reuters Reporting Europe Prize per la «profonda ed esaustiva» inchiesta sulle frodi dei fondi strutturali europei, trasmessa dalla Bbc World Service. «Per la prima volta siamo stati capaci di fornire la testimonianza di un ex boss della malavita trapanese, disposto a spiegare come Cosa nostra sia riuscita per anni a mettere le mani sui miliardi di euro della Ue. Non è stato facile. Il Bureau mi ha spedito in Sicilia da solo con questo incarico e l’imperativo categorico di non tornare a mani vuote». Missione compiuta. Alla cerimonia di premiazione il giovane reporter indossava vestito nero e cravatta nera su camicia bianca, tanto da sembrare a sua volta un perfetto mafioso, «ma unicamente perché non avevo altri abiti seri nel guardaroba...».

Un bel traguardo per un giornalista che non sarebbe mai dovuto nascere, nel senso che è venuto al mondo per miracolo, facendo la felicità della madre Tina, dipendente di origini pugliesi della Regione Lombardia, e del padre Gianfranco, assicuratore nato in Eritrea da genitori italiani, oggi entrambi pensionati. «Sono figlio unico. Dopo 18 anni di matrimonio e molte gravidanze interrotte, mia madre decise di recarsi in pellegrinaggio alla casa natale di Papa Giovanni XXIII, a Sotto il Monte, per chiedere la grazia. Dopo qualche settimana rimase incinta. Data l’età non più giovanissima e le esperienze sofferte, venne seguita da un primario di ginecologia, che la mise a letto e a dieta per l’intera durata della gravidanza. Non riuscirò mai a farle capire quanta gratitudine e stima nutro per lei». Quando la puerpera lasciò il reparto maternità e tornò a casa col bimbo che aveva tanto atteso, trovò il palazzo di piazza Tricolore pavesato a festa dagli striscioni di congratulazioni del vicinato.

Come ha cominciato questo mestiere?
«Con un part-time nella redazione di due riviste trimestrali di settore, Artigianato tra arte e design e Imago shop and fair. Dopo la laurea ho presentato domanda per un master di giornalismo alla City University of London, una delle più prestigiose al mondo. Fortunatamente mi hanno preso».

È iscritto all’albo dei giornalisti?
«Sì, come pubblicista. Per ora non m’interessa sostenere l’esame di Stato per diventare professionista. In Inghilterra non farebbe alcuna differenza».

Da quanto tempo è a Londra?
«Da due anni. La spinta giusta mi arrivò da una splendida ragazza che già viveva qui. Si chiama Annalisa Sonzogni e fa la fotografa. È stata il mio sogno ricorrente fin da bambino. Potrà sembrare incredibile, eppure la prima volta che c’incontrammo la riconobbi. Era lei, la individuai pur non avendola mai vista prima. Non glielo dissi per non essere scambiato per un paranoico. Abitiamo insieme in un appartamento nell’East End».

Fu subito assunto al Bureau?
«No. All’inizio mi arrangiai facendo il critico gastronomico per conto di Sognandolondra.com e Ristorantilondra.com, due siti internet. Passai i primi mesi a mangiare gratis nei posti più eleganti della capitale».

Per esempio?
«Giovanni’s restaurant, a due passi da Leicester Square: un piccolo e lussuoso locale siciliano nascosto in un cortile del 1600, dove Lady Diana e Luciano Pavarotti erano soliti venire a trovare il padrone di casa, il nobiluomo Pino Ragona, “il conte dei fornelli” come lo chiamo io, l’unico italiano invitato al ricevimento di Buckingham Palace per il giubileo della regina Elisabetta».

Quindi il salto al Bureau of investigative journalism quando avvenne?
«Un anno fa. Erano alla ricerca di un giornalista italiano e la City University fece il mio nome. Al primo giorno di lavoro mi spiegarono che dovevo completare, insieme con alcuni colleghi del Financial Times, un database che raccogliesse oltre mezzo milione di beneficiari dei progetti finanziati dall’Unione Europea fra il 2000 e il 2006. Pensai d’essere capitato in una gabbia di matti. Però decisi di giocarmela tutta. Dissi di sapere dove finivano i fondi europei in Italia, gli parlai della Salerno-Reggio Calabria e delle infiltrazioni mafiose nei cantieri autostradali. Sia la Bbc che Al Jazeera English si mostrarono interessati. Da quel momento ho abbandonato i fogli elettronici per dedicarmi seriamente alla truffa dei fondi europei».

In pratica?
«Mesi in giro per l’Italia a raccogliere prove e testimonianze. Sono salito a bordo di elicotteri e di volanti della polizia durante maxi operazioni, ho avuto accesso a luoghi off-limits come i nascondigli sotterranei dei boss, sono stato coinvolto in inseguimenti stradali nel cuore della notte, ho ricevuto soffiate e incontrato personaggi controversi: pentiti, funzionari corrotti, pirati informatici. A Catanzaro ho rischiato di farmi arrestare dalla Guardia di finanza mentre filmavo senza autorizzazione un arresto».

Non ho ben capito chi vi paga.
«Abbiamo ricevuto un finanziamento iniziale dalla Fondazione Potter. Da allora ci appoggiamo esclusivamente a donazioni esterne o ad accordi commerciali con i grandi media che pubblicano i nostri reportage».

Ma non siete un organismo non profit?
«Alcune inchieste vengono divulgate gratis sia per informare quanta più gente possibile sia per aumentare la reputazione del Bureau. Una volta che la notizia è stata data, chiunque può attingere dal nostro sito e pubblicarla integralmente, a patto che citi la fonte».

Non è strano che i giornalisti di tutto il mondo, pagati per trovare le notizie, riprendano quelle scoperte da voi?
«Se ci pensa, non è poi così assurdo. Con l’Ansa accade la stessa cosa. Perché i redattori dei quotidiani italiani nel loro lavoro si basano prevalentemente sulle notizie diramate da questa e da altre agenzie di stampa?».

Forse perché costa meno fatica?
«L’ha detto lei».

In tutto quanti siete?
«Una trentina. I giornalisti che lavorano in pianta stabile al Bureau sono solo quattro, gli altri sono freelance chiamati in funzione dei progetti».

Chi è il suo diretto superiore?
«I due colleghi con cui ho lavorato più a stretto contatto sono Angus Stickler, eletto giornalista dell’anno nel 2006 e autore di inchieste spinose sull’abuso di minori da parte di preti cattolici, e Michael Simkin, esperto in documentari sotto copertura. In passato aiutò l’Onu a smascherare trafficanti di armi e droga in Africa».

Le hanno mai dato qualche strigliata?
«Ancora no, ma so già che, quando capiterà, ringrazierò il destino d’avermi assegnato dei capi inglesi. Non alzano mai la voce».

Perché un direttore di giornale dovrebbe fidarsi delle inchieste che gli scodella il Bureau?
«Perché le nostre fonti sono quasi sempre pubbliche e verificabili. La bravura consiste nell’interpretare i dati ufficiali, nell’organizzarli in maniera logica e nel fare i raffronti per proporli al pubblico sotto forma di storie che abbiano senso compiuto».

Per quanto tempo indagate su un caso?
«Come minimo quattro settimane. L’inchiesta più lunga condotta finora, quella sui fondi strutturali dell’Unione europea, è durata nove mesi. Praticamente una gravidanza».

Già che c’è, spieghiamo che cosa sono i fondi strutturali.
«Sono finanziamenti a fondo perduto, dell’ordine di centinaia di miliardi di euro. La Ue li destina a regioni bisognose di infrastrutture che siano all’altezza degli standard comunitari. Nel Sud Italia la maggior parte dei beneficiari realizzano i progetti risparmiando sui costi dei materiali o non li realizzano proprio».

Quindi che idea s’è fatto dell’Europa unita?
«Penso che abbia un potenziale immenso, ma strumenti ancora inadeguati per esprimerlo. L’europarlamentare Newton Dunn mi ha detto: “La Ue è una bella ragazzina che ha tanto da imparare sul proprio corpo”. Concordo».

Picchiate duro anche sulle multinazionali.
«Certo, perché hanno il potere d’influenzare la vita di milioni di persone. Di recente ci siamo occupati di Hsbc, fra i più grandi gruppi bancari del mondo e il primo d’Europa per capitalizzazione, che contribuiva all’arricchimento della classe politica vicina al presidente egiziano Hosni Mubarak. Abbiamo scoperto che il colosso mondiale è stato il più attivo nelle privatizzazioni in Egitto, con centinaia di milioni di euro elargiti a società gestite da una dozzina di personaggi poi accusati di corruzione, tra cui immobiliaristi, imprenditori ma anche ministri e membri del parlamento. Il che ha fatto sorgere qualche dubbio sulla scelta del premier inglese David Cameron di designare Stephen Green, ex presidente di Hsbc, quale ministro per il Commercio e gli Investimenti. Inoltre, a seguito della nostra inchiesta sui fondi strutturali, la Commissione europea ha appena bloccato 12 milioni di euro assegnati alla Twinings, la famosa casa produttrice di tè. Ora aspettiamo che faccia lo stesso con altre multinazionali beneficiarie di fondi pubblici, come l’Ikea, la British american tobacco e la Siemens».

In caso di querele, chi paga?
«Stiamo molto attenti a quello che scriviamo e teniamo sempre ben presente il motto di Brendan Martin, un collega molto saggio: “Il giornalismo investigativo è esattezza, esattezza, esattezza”».

Non vi fermate davanti a nulla?
«Mentre preparavo un’intervista a un personaggio scomodo, ho detto al mio capo che avevo qualche remora a intervistarlo in pubblico, in quanto potevano riconoscerlo e sparargli a vista. La risposta è stata: “Wow, dici sul serio? Davanti alla telecamera?”».

Viaggiate molto per raccogliere le prove?
«Dipende da dove si trovano le prove. Finora mi hanno spedito più che altro in giro per l’Europa. Altri colleghi invece sono finiti in remoti villaggi africani, baraccopoli indiane o in zone calde come l’Irak».

Ma il Bureau of investigative journalism è di sinistra, di destra o di centro?
«È apolitico. Lavoriamo esclusivamente nell’interesse dei cittadini. La verità fa molto rumore da sola, non c’è bisogno di aggiungere commenti politici».

Ho notato che non vi occupate mai della famiglia reale britannica, che invece come soggetto di scandali e di sprechi non è seconda a nessuno.
«La stampa inglese investe già molte risorse per occuparsi della famiglia reale. Il Bureau preferisce battere strade inesplorate. Per esempio ci siamo dedicati ai conflitti d’interessi dei dirigenti dell’Nhs, il sistema sanitario nazionale, che intrattengono rapporti con compagnie private destinatarie di finanziamenti pubblici».

Ha qualche sogno professionale?
«No. Amo raccontare storie e mi accontenterei di passare la vita a farlo».

Perché un giovane dovrebbe scegliere il nostro mestiere?
«Perché, se fatto con onestà intellettuale, è il lavoro più bello del mondo. Si viaggia, s’impara, s’indaga, s’incontrano protagonisti. Soprattutto si contribuisce a migliorare la società».

Crede che Internet soppianterà la carta stampata?
«Alla lunga sarà inevitabile. Un vero peccato per gli amanti dell’oggetto giornale, come me. Ma i tempi cambiano e Charles Darwin insegna che sopravvive chi si adatta meglio».

(550. Continua)

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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