Se questi sono i piccoli, allora viva i grandi editori

Atmosfera plumbea alla Fiera (delle vanità) di chi vende libri. E poi spunta persino Veltroni. Nel giorno dei "bideini" anti Silvio convegni verbosissimi e fiumi di retorica

Se questi sono i piccoli, allora viva i grandi editori

Arrivo alla «Fiera nazionale della piccola e media editoria» con un’ora di ritardo, e non perché mi aspettasse qualcuno, piuttosto in ritardo con il mio tempo perduto nel traffico, sono rimasto incastrato a San Giovanni tra i bideini del No B-day, e ho potuto vederli da vicino: basta uno sguardo per capire che vanno in piazza per far festa, palloncini colorati, musica, arance, salsicce, agenti della polizia che si chiedono cosa ci stanno a fare, mancano solo le ragazze pon pon, ci fosse qualche trans meglio ancora.

Il contrario dell’aria plumbea che si respira all’Eur, al Palazzo dei Congressi, con gli editori piccoli e medi tumulati vivi dentro loculi di stand, sembra una fiera di agenzie immobiliari. All’inizio, otto anni fa, molti editori disertarono, gli stand costavano troppo, mi ricordo Francesco Coniglio che diceva «stikazzi», ora invece c’è pure lui. Li hanno incastrati come succede a Torino, perché nella piccola e media editoria è così, devi far vedere di avere uno stand e chi ce l’ha più grosso ci fa più bella figura. Ma a differenza di Torino qui tutti hanno investito il minimo e se ne stanno mogi imbalsamati nei cubicoli, a eccezione di Elido Fazi, il quale ce l’ha grosso quanto un monolocale e quasi quanto la prospiciente Newton Compton e se ne sta tronfio come un macellaio ripulito stagliandosi sul cartellone dell’ultimo Stephanie Meyer. E a eccezione di Marco Cassini e della sua truppetta giuliva di minimum fax, quelli chi li ammazza, hanno pure Lagioia a tempo pieno. Perfino la Sellerio ce l’ha piccolo, e comunque in compenso hanno una standista iperattiva, devono averle imposto di vendere, e lei poverina ci prova con chiunque a rifilare l’Herta Müller appena pubblicato: «Prenda questo, signore, è l’ultimo Nobel!».

Non crediate di salvarvi al secondo piano, perdete ogni speranza voi che entrate nel girone della morte delle presentazioni, meno male che lo slogan è «più libri più liberi», io avrei suggerito brutti libri meno liberi, basta vedere cosa si presenta e chi presenta. Vedo Walter Veltroni e mi infilo nella Sala Rubino, dove insieme a Paolo Mauri sta presentando Diletto, di Ugo Riccarelli, e l’atmosfera è quella dell’aula universitaria più soporifera benché le prolusioni siano quelle di un asilo nido. «Cos’è il letto? Nel letto si nasce, nel letto si muore, nel letto ci si riposa, nel letto si fa l’amore», e così Mauri e Walter spiegano che si tratta di un libro di racconti sui letti, e siccome è il No-B Day penso: sta’ a vedere che adesso la buttano in politica e si arriva al lettone di papi. E infatti, dopo venti minuti, cominciano a chiedersi: «Dio ha un letto? Come sarà il letto di Dio?».

Temendo che stiano parlando solo di teologia e non di Silvio, preferisco restare nel dubbio e mi infilo nella Sala Diamante, per assistere a una tavola rotonda dove si vuole «Stimolare alla scrittura creativa gli adulti educatori». Ascolto per venti minuti una certa Fiorella Bongiorno che parla del bambino creativo da stimolare: «Troppo facile a scuola dire “due per due fa quattro” e non sei o sette. O dire “silenzio” mentre i ragazzi fanno rumore, perché quel rumore che vogliamo sopprimere è un rumore creativo». Seguono interventi. Un professore, anziché strangolarla si inserisce convinto: «Lei ha ragione, l’adulto deve tornare bambino per insegnare al bambino a essere un adulto creativo, ma la disparità tra Nord e Sud...».

Tuttavia non c’è fine al peggio, provate a entrare nella Sala Ametista dove si parla di «TrasformAzioni Urbane: raccontare la città che cambia», o alla Sala Corallo dove si odono le voci dal Corno d’Africa, «migrazioni, letture e visioni», e seguirà un’altra tavola rotonda sul «nuovo immaginario italiano raccontato dagli scrittori italiani e migranti contemporanei». Meno male che alla Sala Diamante Antonio Ingroia, Michele Santoro e Luigi De Magistris si ritrovano per fare un elogio delle intercettazioni, e sono di sinistra, vai a sapere però perché il pensiero di sinistra è andato avanti cinquant’anni con refrain sul capitalismo e la «società di controllo», da Orwell a Bifo.
Torno giù e si muore dal caldo e mi sento morire dalla noia, il Palazzo dei Congressi è un forno crematorio rivestito di marmo obitoriale, allo stand della Hacca c’è il mio amico poeta omosessualissimo Antonio Veneziani che mi saluta «Ciao Parente stronza, ti chiamo sempre e non rispondi mai», mentre una coppia mi ferma per dirmi «Noi ci conosciamo, siamo amici su Facebook», tanto piacere, fatemi scappare. Allo stand della Fandango incontro lo scrittore Mario Desiati, anche lui depresso, e mi dice che sono l’unico a cui darà la mano perché ha dimenticato a casa l’amuchina. «Prego?». «Me la porto sempre dietro, alla fiere, per disinfettarmi, ho orrore di dare la mano agli scrittori e agli editori, mamma mia che schifo». Come dargli torto, io infatti non do la mano a nessuno ma darei tanti schiaffi in giro almeno per scoprire se si svegliano dal trance, e meno male sono sotto effetto del citalopram, altrimenti mi sarei già lanciato dal secondo piano giù a capofitto sul ciuffo di Fazi.

Non potendo fare niente di utile, per esempio lanciare missili intelligenti come faccio sulla X-Box quando combatto i terroristi in Call of Duty Modern Warfare 2, devo almeno degradarmi in qualche modo per sentirmi vivo, e per fortuna mi passa vicino lui, proprio lui, il bruco, e lo fermo subito, non mi faccio scappare l’occasione. «Veltroni, posso farmi una foto con lei?». Lui ci sta subito, e si mette in posizione, sorridente, e passo il mio iPhone a Maria Sole Abate, che non avendo un trans disponibile, mi fa svogliatamente da escort. Ma stare vicino a Walter non mi basta, devo esagerare, devo azzerarmi, devo provare cosa si prova a non essere niente. «Sa, lei è il mio scrittore preferito» dico, e lui pare crederci, «Davvero?», ma è distratto dall’iPhone. «Caspita, ma allora è un’iPhoto!» perché appena sente I-qualcosa non capisce più niente, ora si spiega, scriverà i suoi romanzi del cazzo su un iMac. «Certo, I care, I photo, I can, quanto sei bello Walter», tanti saluti e grazie.

Una volta uscito respiro, sono fuori, l’universo mi appare anche meno tragico, e ripensandoci Walter quasi tenero sarebbe lo zio ideale da avere fino a cinque anni, ma io ne ho quaranta e mi sembra di averne ottanta, e però, allontanandomi dalla Fiera della morte, mi sento, per

un attimo, come deve essersi sentito Primo Levi quando l’Armata Rossa gli ha aperto i cancelli di Auschwitz, quasi quasi vado dai bideini felici a San Giovanni, tra porchetta e cotillons, nel migliore dei mondi possibili.

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