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Se Sciascia potesse commentare Mani Pulite

Un gruppo di giuristi ha riletto i saggi dell'autore siciliano adattandoli ai fatti di oggi

Se Sciascia potesse commentare Mani Pulite

C'è un pensiero che una trentina di anni fa, nell'epoca tumultuosa dell'inchiesta Mani Pulite, assillava qualcuno: «Cosa direbbe Sciascia?». Ma Leonardo Sciascia era morto da due anni e qualche mese, nel novembre dell'89. Così quella storia di tangenti, di manette e di confessioni non poté venire raccontata dallo scrittore di Racalmuto. Sciascia non fece in tempo a gettare il suo sguardo implacabile, lontano tanto dalle malefatte del potere che dalla intrinseca violenza della giustizia, sul crollo di Tangentopoli. Sarebbe stato uno sguardo illuminante, come al solito.

Peccato. Perché gli eterni interrogativi sulla natura del processo penale (che in fondo si trascinano fin dalla domanda di Pilato a Cristo, «che cos'è la verità?») attraversano per intero l'opera di scrittore di Sciascia, nel segno di un lucido pessimismo sugli esiti finali della giustizia umana. Chissà come Sciascia avrebbe raccontato il procuratore Borrelli, che dei suoi inquisitori aveva la statura e l'assenza di dubbi. Chissà come avrebbe raccontato Di Pietro.

Ora, nel solco delle celebrazioni per il centenario della nascita, un gruppo di giuristi si è preso la briga di andare a individuare sette degli innumerevoli flash che nei libri di Sciascia affiorano a raccontare il disincanto davanti alla pretesa chiamata giustizia: e da lì partire per ragionare, sviluppandone le implicazioni assai attuali e in un certo senso le conseguenze. Sono frasi che vengono da quattro libri: Il Contesto, La strega e il capitano, Porte aperte, Il Cavaliere e la morte, e vengono ben riassunte nel predicato che dà il titolo al libro: Ispezioni della terribilità. A monte ci sono le letture che, a pandemia in corso, l'Unione delle Camere penali ha organizzato insieme agli Amici di Leonardo Sciascia in onore di Massimo Bordin, voce storica di Radio Radicale. Calare Sciascia nell'attualità non è difficile. Antonio Bevere, fondatore di Magistratura democratica, per molti anni giudice in Cassazione, parte da una frase estratta da Porte aperte («Di bravi uomini è la base di ogni piramide di iniquità»): e da lì approda ad analizzare due temi cruciali, la prepotenza delle Procure sui giudici, e la connivenza «mercantile» del Consiglio superiore della magistratura.

I GIUDICI

«Il magistrato della pubblica accusa - scrive Bevere - non commette errori: il mancato accoglimento della sua tesi è segno dell'ignavia, della codardia del giudice. L'accoglimento della pena massima per quantità e durata di sofferenza è il presunto trionfo del giusto». Se un giudice richiama al rispetto delle regole di garanzia, per lui diventa «impossibile contrastare la qualifica di professionalmente inaffidabile, percepibile nei brusii all'interno dell'ufficio, nell'emarginazione dettata dalla maggioranza mercantile dell'organo di autogoverno». Ovvero il Csm.

CACCIA AL COLPEVOLE

Su tutto Sciascia, e di rimando su questo libro, incombe l'ombra cupa della Colonna infame di Manzoni. C'è un capitolo che si occupa proprio di questo, e di come - passata, almeno a queste latitudini, la passione per le tenaglie e i roghi - l'istinto persecutorio continui a essere un ingrediente della ricetta giudiziaria. «Terrificante è sempre stata l'amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano e vi si insinuano», scrive Sciascia ne La Strega e il capitano. Per Sciascia, il consenso ottuso della gente e la necessità di individuare un colpevole anche incolpevole sono pilastri su cui la ragion di Stato si regge. Gli va appresso Salvatore Scuto, avvocato milanese: «Lo scontro che si è sviluppato - nel corso e dopo Tangentopoli - tra poteri politici e magistratura ha sviluppato in una parte dell'opinione pubblica la difesa incondizionata della giurisdizione; il che ha finito per sviluppare, sia in quella parte dell'opinione pubblica sia all'interno della magistratura, la concezione del potere giudiziario come un potere buono, un potere salvifico».

L'ORTODOSSIA

Nei tanti ritratti di giudice di Sciascia si affolla un universo variegato, il cui comune denominatore appare l'ortodossia. Dietro l'agire dei singoli, ancora più inquietante, si stagliano l'apparato, la macchina, il potere. Chiamato a misurarsi con una frase tratta da un saggio di Sciascia intitolato Il giudicare con sofferenza («La scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella ripugnanza a giudicare (...) dovrebbe consistere nell'assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all'inquietudine, al dubbio»), un grande giurista come Paolo Ferrua ne trae conclusioni desolanti su quanto il potere dell'apparato sovrasti persino la lettera della legge. Ferrua si appoggia a Jules Michelet, storico della Rivoluzione francese: «Datemi il potere giudiziario - scriveva Michelet nel 1847 - tenetevi le vostre leggi, tutto quel mondo di cartacce; io mi incarico di fare trionfare il sistema più contrario alle vostre leggi». A quasi due secoli dall'invettiva di Michelet, a confermare il predominio del giudice sulla legge provvede - spiega Ferrua - l'interpretazione, che spesso è interpretazione creativa: «L'eversione della legge attraverso una lettura creativa" è un fenomeno mille volte più insidioso e preoccupante rispetto all'aperta contestazione della legge; mentre esistono mezzi per sanzionare la ribellione alla legge, contro la sua eversione in sede interpretativa, specie se praticata dalle legislazioni superiori, non esiste alcun rimedio».

Citando Gesualdo Bufalino, Paolo Squillacioti afferma che «l'intera opera di Sciascia, da Favole della dittatura - il suo primo libro, pubblicato nel 1950, fino A futura memoria (se la memoria ha un futuro), l'ultimo apparso postumo nel 1989 - è un lungo discorso sulla giustizia e il diritto: sulla denuncia della negazione del primo concetto, sulla necessità e l'insufficienza del secondo». Stando così le cose, era inevitabile che Massimo Bordin, che delle anomalie del sistema giudiziario aveva fatto un tema dominante della sua attività giornalistica, abbia lasciato un archivio in cui la presenza di Sciascia è quasi ubiqua. In appendice al libro, ampio materiale proveniente dall'archivio di Bordin permette di calare l'insegnamento di Sciascia negli anni cupi del terrorismo, in cui lo scrittore entrò in rotta di collisione col Partito Comunista, cui pure era stato vicino.

E a svettare su tutto, le polemiche che investirono Sciascia per il suo articolo sui «professionisti dell'Antimafia», in cui lanciava l'allarme su una «antimafia come strumento di potere, retorica aiutando e spirito critico mancando».

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