La «seconda Cogne» ora merita le scuse

(...) Il giorno dopo, a levare ogni dubbio, è intervenuto quel galantuomo del procuratore capo di Genova Francesco Lalla che ha liquidato il caso: «Non c’è nessun giallo». E, a questo punto, anche la maggior parte dei colleghi che aveva cavalcato il caso il giorno prima, ha capito che non era il caso di infierire su una mamma già così provata.
Ma a molti non è bastato nemmeno questo. E si è visto e letto di tutto: dai supertestimoni che avrebbero dovuto incastrare qualcuno, ma in realtà non aggiungevano nulla alla vicenda, al riferimento continuo all’attesa messianica della «prova dello stub» per verificare chi avesse sparato nella casa di via Gibilrossa. E, ogni volta, quel verdetto del Ris di Parma, veniva presentato come una sorta di ordalia, il giudizio di Dio.
Quella la prova dello stub è arrivata. Papà Franco, mamma Roberta e Gabriele, il fratellino di nove anni, non hanno sparato. Solo il più crudele e drammatico dei destini ha fatto sì che Renato si uccidesse incidentalmente. Il caso è chiuso, nello stesso identico modo in cui l’abbiamo raccontato noi dal primo giorno. Dedicando a Renato e alla sua famiglia non un’attenzione opprimente e capace di togliere il fiato, ma solo una quotidiana preghiera.
Ora, nel nostro mestiere può capitare di sbagliare.

Su altre vicende, seppure non certo a questi livelli, ma è capitato pure a noi. L’importante è saper chiedere scusa.
Ecco, ci piacerebbe che qualcuno chiedesse scusa alla famiglia di Renato, che in questo modo è stata ferita due volte. Si chiama essere uomini prima ancora che giornalisti.

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