LA SECONDA COGNE

Nella fabbrica dei mostri, qualche giornale nazionale ci aveva anche fatto i titoloni in prima pagina: «Genova come Cogne: giallo su un bambino ucciso. I sospetti sulla madre». Così, per vedere l’effetto che fa. Così, perchè magari fa vendere di più. Così, perchè ci si può fare anche un grafico con i parallelismi e ci si piazza vicino pure la foto della Franzoni fresca di parrucchiere, che fa sempre la sua figura.
E poi, le televisioni. Dopo le «iene dattilografe» (copyright dalemiano), erano pronte a scattare le truppe microfonate, magari sognando una nuova epopea di talk-show, con gli schieramenti di innocentisti e colpevolisti, i plastici della casa di via Gibilrossa dove Renato si è sparato e tanti, tanti interventi in video degli specialisti del caso.
Insomma, il più crudele e terribile dei drammi - la perdita di un figlio che stava giocando con un’arma che avrebbe dovuto essere scarica e che invece, per uno scherzo del destino e una disattenzione letale, aveva il colpo il canna - si è trasformato in qualcosa di ancor peggio. Un processo mediatico a una famiglia che già aveva perso il figlio.


Noi a quel processo non abbiamo mai partecipato, fin dal primo giorno, sulla base di quello che ci avevano detto i carabinieri. Meglio rischiare quello che in gergo giornalistico si chiama un «buco», non avere una notizia, piuttosto che rischiare di infangare una famiglia che già aveva dovuto subire la perdita più dura. (...)

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