Costruita intorno al manoscritto originale dell’Histoire de ma vie acquistato lo scorso anno dalla Bibliothèque Nationale de France (oltre tremila pagine sopravvissute miracolosamente a due secoli e passa di convulsioni della storia), la mostra «Casanova. La passion de la liberté» (BNF-Site Mitterrand, sino al 19 febbraio) è una festa per gli occhi e una gioia per il cuore. Ci sono i Canaletto, i Guardi, i Longhi e i Tiepolo, le «carceri» di Piranesi, i ritratti di Mengs e le cortigiane di Boucher, gli oggetti di viaggio di un instancabile viaggiatore, abiti, valige, pistole, tabacchiere, gioielli, e gli oggetti per la cura del corpo di un instancabile seduttore, ferri per i capelli, unguenti, pomate, piccola farmacia... Ci sono le carte da gioco e i giochi da tavola, gli oggetti d’arte, arte culinaria compresa, e i tessuti di lusso, di un Settecento allegro e licenzioso, le lettere d’accredito, di raccomandazione e di denuncia, le epistole sentimentali e quelle filosofiche, di un Settecento elitario e crudele. L’insieme è sontuoso, ma non perde mai di vista il soggetto intorno a cui tutto ruota: l’uomo a cui una sola vita non basta, Casanova, appunto.
Per gli italiani il rapporto con Casanova è stato a lungo conflittuale. Ci divertiva e un po’ ci inorgogliva l’elemento erotico, ma il suo libertinismo amorale strideva in un Paese dove la Chiesa è stata potere temporale e la morale cattolica un codice infranto quanto sbandierato. Chi provò a farne una bandiera libertaria se la vide contestare dal movimento femminista che, non avendo mai letto le sue memorie, lo riteneva un volgare stallone da monta. Federico Fellini, che sessualmente parlando era un provinciale, le tette grosse, la masturbazione, il buco della serratura e quelle cose lì, non si distaccò da quella vulgata e nel suo Casanova cinematografico disegnò il ritratto di quello che definì «uno stronzone fascista»...
Solo con molta fatica si è cominciata ad accettare l’idea che Casanova sia stato non solo un gigante del suo tempo, dove esercitò un ruolo per nulla marginale, e un grandissimo scrittore, ma altresì una sorta di italiano ante-litteram, colto, ironico, viaggiatore, curioso, vitalista, di cui l’Ottocento delle rivendicazioni nazionali, in cui l’Italia trovò la sua realizzazione statuale, smarrì l’anima che l’aveva reso possibile. Così il termine «avventuriero», il più giusto per definirlo, assunse un moralistico sapore di condanna, il sostantivo che nacque dal suo nome si colorò di una tinta pruriginosa, la straordinaria vita vissuta fu relegata a invenzione, megalomania senza riscontro. Fu un peccato perché, come tipo umano, Giacomo Casanova veneziano avrebbe potuto servire da modello e invece ce ne arrivò solo la sua caricatura.
In linea con la migliore revisione storica novecentesca, la mostra ci consegna invece l’immagine di chi, come ha scritto il suo più recente biografo inglese, Ian Kelly, «fu un orgoglioso intellettuale plurilingue, impegnato in molteplici carriere, che accumulò e dissipò patrimoni, fondò una lotteria di Stato, aiutò a introdurre l’oratorio nella musica francese, fu un gourmet e un abile cabalista». Come riassumerà il conte Lanberg: «Conosco poche persone che possano eguagliarlo per cultura, intelligenza, immaginazione». Insomma, l’aggettivo accrescitivo della sprezzante definizione felliniana merita di ricadere implacabile sulla testa di chi lo pronunciò.
Figlio di attori e figlio naturale di un nobile, Casanova cercò per tutta la vita di ritagliarsi un ruolo in una società quale quella veneziana, dai ranghi gerarchici ben definiti ed entro i quali per lui non c’era posto. Chiusa nella sua decadenza, la Serenissima combatté contro di lui una guerra di retroguardia: l’eliminazione di un corpo estraneo e non la sua intelligente assimilazione. Lo imprigionò, lo costrinse alla fuga e all’esilio, ma non riuscì a domarlo né si rese conto che così facendo intanto perdeva se stessa. Repubblica illustre, scomparirà senza nemmeno abbozzare un gesto di difesa di fronte a un giovane generale, Napoleone, che le detta le condizioni di resa usando un tamburo militare come scrivania. Il cavaliere di Seingalt nasce così, motu proprio di chi si crea da solo i propri titoli di nobiltà. All’imperatore di Prussia Giuseppe II che gli dirà di disprezzare chi dà importanza ai titoli, risponderà sferzante: «E allora, che cosa dovremmo pensare di quelli che i titoli li vendono?».
Nato in una città di maschere e in maschera, dove niente è certo e ogni cosa sembra permessa, dove i codici delle relazioni umane vengono alterati nel loro ingessarsi e/o inventarsi, Casanova visse in fondo secondo questo spirito, il travestimento e la recita come una seconda natura. È anche per questo che la capitale francese che oggi lo celebra fu il suo luogo deputato, perché «a dispetto del suo scetticismo, Parigi è e sarà sempre una città dove gli impostori avranno successo, una caratteristica che deriva dalla suprema influenza della moda».
La sua modernità, come uomo e come scrittore, è duplice. Rispetto ai viaggiatori coevi e eurocentrici del Grand Tour si distacca non solo geograficamente, ma anche emotivamente: viaggia con nobili e poveracci, è derubato e fa «l’autostop», lo guida un’idea di esperienza e di conquista, una sorta di insoddisfazione spirituale a rimanere a lungo nello stesso posto. Rispetto ai seduttori o agli ossessi del sesso della sua epoca o di poco posteriori, i De Sade, i Byron, la sua sensualità fa tutt’uno con il resto della sua odissea intellettuale, geografica e professionale, ed è il primo a trattarla in quest’ottica.
Nelle due camere che furono la sua ultima dimora nell’estremo nord fra Repubblica ceca e Germania, un’iscrizione in italiano sotto l’edizione del 1787 della Histoire de ma fuite de prison de la République de Venise qu’on appelle Les Plombes recita: «Marmo che in San Samuele a Venezia sostenesti i passi di Casanova vivente, testimonia oggi a Dux che per quelli che lo amano Giacomo non è mai morto».
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