nostro inviato a Los Angeles
Lei, Sue Sylvester, è la cattiva della situazione, ma in realtà è l’unica vera perdente. Eppure Glee, la serie per adolescenti della Paramount che ha sbancato l’America con una media di 12 milioni di telespettatori in prevalenza di sesso femminile (trasmessa in Italia in prima assoluta da Fox sulla piattaforma Sky), non è un musical buonista. Bensì geniale. Perché geniale è l’idea che i perdenti non esistono. E che gli sfigati possono riscattarsi, imparare a essere se stessi e ribaltare i pronostici. Quello che conta è credere fino in fondo in ciò che si fa.
In un’epoca tutta improntata alla filosofia dei belli spietati e vincenti, la storia di un gruppo di ragazzi normali, magari complessati e vittime del bullismo, che coltivano le proprie passioni fregandosene della reputazione, uno dei must della serie, si è dimostrata vincente e capace d’infilare un successo dietro l’altro. Come dimostra la raffica di premi - quattro Emmy Awards e tre Golden Globes, oltre a vari record nelle classifiche musicali - conquistati dal telefilm ambientato al liceo McKinley di Lima (Ohio).
Alla Paramount la produzione di Glee occupa cinque studi, a differenza delle altre che si accontentano di uno. È qui che incontriamo Ian Brennan, 33 anni, «l’età di Gesù» sottolinea, uno dei tre produttori esecutivi nonché autore del serial. «Ero un normale studente di liceo - racconta Brennan - senza particolari rivincite da consumare. Non avevo problemi con le ragazze e non ero vittima dei bulli, facevo l’attore nel club della scuola. Poi ho continuato a occuparmi di recitazione e sceneggiature. Nel 2005 ho avuto quest’idea. Pensavo a un film per il cinema, ma quando ho incontrato Ryan Murphy e Brad Falchuck, loro hanno suggerito di farne un programma tv. E hanno avuto ragione».
Dopo la puntata pilota mandata in onda il 19 maggio 2009, nell’attesa della vera partenza della serie tre mesi dopo, i social network si sono scatenati. «È stato allora che abbiamo capito che la storia funzionava. Twitter e Facebook mostravano una grande vivacità, una grande attesa», conferma Jane Lynch, algida stangona, nella vita paladina delle lotte per i diritti degli omosessuali e madre di un adolescente. Nel serial, invece, dà volto e antipatia all’allenatrice delle «cheerleaders», impegnatissima a contrastare Will Schuester (Matthew Morrison), il professore di spagnolo deciso a resuscitare il Glee club dove si studiano canto, ballo e musica, appunto le discipline «da sfigati». Il conflitto tra i leader storici, giocatori di football americano e «cheerios», e i giovani «nerds» coinvolgerà tutto il liceo, finché gli schieramenti inizieranno a confondersi e i tabù a crollare.
Nei 45 minuti di ogni episodio succedono un sacco di cose, narrate col linguaggio leggero del musical. Tra una prova canora, un ballo patinato e una partita di football, spuntano turbamenti adolescenziali, il ragazzino gay non sa come svelarsi, la leader del gruppo pro-castità resta incinta e via complicando la storia. Gli argomenti e i personaggi, aiutati da un look studiatissimo e da un marketing scientifico, sono scelti per alimentare il dibattito dentro e fuori la serie. Glee è una sorta di musical com’era negli anni ’80 Saranno famosi. Però con gli additivi dei talent show e dei social network. Ai quali, poi, si aggiunge forse l’ingrediente più tonificante della ricetta: la partecipazione delle star del cinema. Dopo Gwyneth Paltrow, comparsa nei panni di una supplente che nelle prossime puntate tornerà in servizio, anche Anne Hathaway, nel corso della serata dei Golden Globes ha chiesto al produttore Ryan Murphy di partecipare a un episodio.
Poteva una serie così non diventare un successo mondiale? La Paramount ha dato l’ok per la terza stagione.
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