Luciano Gulli
nostro inviato ad Amona
La notte sul monte calvo è stata gonfia di trepidazione e di sussurri, di oscure premonizioni, di suoni di chitarre che si levavano dai bivacchi improvvisati, intorno ai caravan, e di salmodie. Per tutto il pomeriggio i ragazzi e le ragazze avevano lavorato duro alle barricate. Cumuli di sassi sulla strada che sale fino in cima a questo colle brullo, nel cuore della Samaria biblica; le bottiglie piene di vernice da usare come molotov o da spalmare sui parabrezza dei blindati; le taniche di gasolio da incendiare per ostacolare l'avanzata del «nemico»; le nove case in muratura che la polizia aveva giurato di abbattere trasformate in fortilizi, col filo spinato sul tetto e i copertoni da bruciare e gettare sulle teste degli assalitori, come negli assedi medievali. Il giorno dopo sarebbe stato un giorno di battaglia. Non una semplice protesta, ancorché vivace, si erano raccomandati i capi dellavamposto illegale. Ma una gigantesca bagarre, tale da far impallidire il ricordo degli scontri di Gaza, durante l'evacuazione dell'estate scorsa. Questo aveva chiesto il Consiglio dei Rabbini della Giudea e della Samaria. E così è stato.
«Il governo di Ehud Olmert ha dichiarato guerra alla terra di Israele e a chi la difende», avevano proclamato Dov Lior e Elyakim Levanon, rabbini capi di Hebron-Kiryat Arba e di Elon Moreh. «Difendiamoci dalla caccia agli ebrei e fermiamo la svendita della nostra terra», avevano soffiato sul fuoco i due religiosi. «Uniamoci per difendere l'anima d'Israele. E ricordiamoci che le parole del grande rabbino Tzvi Yehuda, quando diceva che ci sarà una grande guerra per la Giudea e la Samaria sono sempre vere».
In fin dei conti, con queste premesse, 250 feriti (due dei quali gravi: un agente e un civile) sono un bilancio tutto sommato accettabile. La battaglia comincia all'alba. Seimila tra soldati e poliziotti contro altrettanti coloni inferociti. E i soldati e i poliziotti che ora scendono dal monte calvo, chiusi nelle ambulanze, le mimetiche sporche di sangue, sono gli stessi che fino a ieri hanno difeso dai palestinesi questi fanatici invasati con le treccioline che gli scendono ai lati delle orecchie.
Alle due del pomeriggio, quando la battaglia si è ormai conclusa, e quattro delle nove case abusive sono già in macerie sotto i colpi di gigantesche ruspe, gli scontri proseguono, sporadici. Un poliziotto a cavallo (lui e il cavallo imbrattati di vernice bianca) viene circondato e disarcionato sotto i nostri occhi. La folla lo colpisce a pugni, calci, bastonate, finché arrivano i rinforzi e uno degli aggressori viene placcato e impastoiato come una pecora. Dalle case ancora in piedi si estraggono ragazzi e ragazze feriti, molti sotto choc. Le ambulanze vanno e vengono sotto gli occhi dellunità d'élite Yasam della polizia di frontiera e dei soldati. Molte jeep hanno le ruote bucate dai punteruoli, così come i furgoni delle tv. Chi non è ferito fa resistenza passiva, scalciando come un mulo e rimediando altre manganellate. All'intorno si vedono ancora i segni del bivacco notturno. Centinaia di bottiglie di plastica vuote, i resti di quel che sembra un gigantesco pic-nic di maleducati, sacchi a pelo e quaderni di bambini che le loro mamme avevano portato fin quassù a fare i compiti prima della battaglia.
Amona, 20 chilometri in linea d'aria a sud di Gerusalemme, nell'agro di Ramallah, non è un insediamento, ma un «avamposto». Uno dei 105 avamposti illegali messi in piedi in territorio palestinese, senza neppure lavallo del governo. È così che, per decenni, le colonie ebraiche nei Territori occupati si sono estese e moltiplicate. Il meccanismo espansionistico è sempre stato lo stesso. Si occupa la collina di fronte a un insediamento, vi si trasferiscono una decine di roulotte e di prefabbricati, si chiede aiuto alla polizia che accorre, circonda, difende, coccola. Poi arrivano l'acqua e la luce, la «tribù» s'ingrossa, e dove c'erano le roulotte, come per incanto, spuntano tante casette tutte uguali. E anche qui, dopo un po', finisce che è Israele.
Ad Amona, i soldati dovevano abbattere solo nove case in muratura costruite su terreni privati palestinesi. Un gesto poco più che simbolico. Giacché ipocrisia vuole che le altre 15 baracche piazzate a trenta metri, su questa altura da cui si domina la Samaria, siano ormai considerate come facenti parte della colonia di Ofra, che sorge ai piedi della collina, con i tulipani e gli anemoni nei giardini delle villette. «Roba acquisita», cioè. Anche se tutti i 2.500 abitanti di Ofra, molto religiosi e molto pugnaci, dovranno prima o poi sfollare, in ossequio alla dottrina Sharon-Olmert che prevede il ritiro degli ebrei al di qua del «muro della vergogna», entro confini demograficamente più sicuri, visto che gli arabi che circondano le «enclave» ebree figliano come conigli. Amona come un test, dunque; un test pensato apposta per saggiare l'opinione pubblica in vista delle elezioni di marzo. Quando Kadima, se vincerà, dovrà farsi carico della spinosa questione.
«Ma non finirà così - giura Athira, una ventenne di New York che ha i parenti a Ofra -. Qui non sarà come a Gaza. Ci difenderemo. E sui nostri cartelli scriveremo le promesse di Sharon. Costruite, diceva. A mettere a posto le cose poi ci penso io».
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