Cinzia Romani
da Roma
Gyurka non ha quindici anni quando una sera si ritrova in lacrime nel salotto di casa, a Budapest, stretto al padre, che lindomani sparirà nei campi di lavoro. «Sai che cosa significa destino ebreo?», gli chiede lo zio. E lui, piccolo Jude per i nazisti pronti alla «soluzione finale», pensa alla sua stella gialla sul petto. Presto questo ragazzo innamorato della vicina di casa con cui gioca a ramino, capirà: non cè follia che non si possa vivere. E a insegnarglielo saranno i lager, dove, nellintervallo tra i tormenti, lui pure trova «qualcosa che assomigliava alla felicità». Bisogna vedere Senza destino (da oggi nelle sale) di Lajos Koltai, il bel film ungherese, candidato allOscar come miglior film straniero, per guardare allOlocausto da un punto di vista nuovo. Sono rari, infatti, i film del genere, capaci di creare unempatia «bianca» tramite la descrizione a ciglio asciutto, di quel che patirono gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. E ciò avviene perché qui è della biografia del Premio Nobel per la Letteratura Imre Kertész che si tratta, ripercorsa nel romanzo dellautore ungherese Essere senza destino (Feltrinelli) anche punto di partenza della sceneggiatura, ancora di pugno dello scrittore classe 1929, deportato ad Auschwitz nel 44 e liberato a Buchenwald nel 45. «Noi pensavamo al film due anni prima che Kertész vincesse il Nobel», puntualizza Koltai. «Il testo mi colpì nellanima, cominciai a vederlo con gli occhi interiori e, in effetti, il protagonista procede dallinterno delle sue emozioni verso lesterno della realtà», dice il cineasta, uno dei più famosi direttori alla fotografia sul mercato (ha lavorato nei film di Tornatore La leggenda del pianista sulloceano e Malèna).
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