Sequestrati 800mila falsi «made in China»

L’hanno chiamata «operazione Higan», ma forse il nome giusto era China Connection. Perché per la prima volta la Guardia di finanza è andata a scavare non solo nei tratti finali del sempiterno business dei capi di marca «taroccati», ma anche sull’impero economico che governa produzione, flusso e vendita di masse imponenti di materiale in arrivo dalla Cina. E piazzata in Italia con il marchio di Armani, Dolce & Gabbana, Moncler, e via firmeggiando.
É stata portata alla luce una rete talmente solida e ramificata da rendere quasi ovvio collegare questo racket alle grandi strutture occulte della comunità cinese, alle famiglie che governano immigrazione clandestina e riciclaggio. Non a caso a gestire l’indagine è stata Margherita Taddei, uno dei pochi pubblici ministeri abituati a scavare nei patrimoni illeciti di ogni provenienza.
I numeri dell’operazione sono, di per sé, decisamente notevoli: ottocentomila capi sequestrati, nove arrestati, trenta indagati, l’accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla contraffazione e al contrabbando. Ottocentomila paia di scarpe, piumini, jeans sono un sacco di roba. Cuore a Milano, basi e capannoni in tutto il centro nord. Al vertice Zheng Zhen Wu alias «Mario», un cinese italianizzato, ben inserito, dai vasti legami. Ma a fare più impressione sono i dettagli che ieri racconta Riccardo Rapanotti, comandante delle «fiamme gialle» milanesi. «La qualità della merce sequestrata è ormai altissima», spiega Rapanotti. In una occasione, per essere sicuri di non essere davanti a un paio di Nike autentiche si è dovuto letteralmente fare a pezzi le scarpe. La banda si muove ormai come una grande impresa. Sbarca la merce nei porti di tutta Europa: da Rotterdam - il maggior porto marittimo del mondo - a Gioia Tauro, da Valencia a Fiume. E quando serve si sposta di paese in paese. «Abbiamo dovuto intervenire d’urgenza - raccontano i finanzieri - perché stavano per delocalizzare la produzione dove costa meno, spostandola dall’Italia alla Romania».
Insomma: un fiume imponente di merce perfetta arriva in Italia via mare e via terra. Dietro ci sono i clan cinesi, ma anche i loro alleati. Tra gli arrestati c’è un senegalese, ed è verosimile che costituisse il canale verso lo smercio abusivo, tra mercati e bancarelle volanti. Ma c’è anche un italiano. Perché la merce contraffatta fa gola a molti. Si paga poco e si vende come vera.

Anche se ai commercianti «regolari» la Finanza concede almeno per ora l’alibi della buona fede: «È possibile che acquistassero e rivendessero pensando che i prodotti fossero autentici». Anche se quando a fornire non è il grossista autorizzato ma un qualunque signor Hu qualche dubbio, forse, potrebbe venire.

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