Seviziato dai romeni muore dopo un calvario di 8 mesi

nostro inviato a Dello (Brescia)

Si può dire sia finita la lunga agonia, non che il valoroso nonno di campagna riposi finalmente in pace. Non c’è pace, non ancora. Quando i compaesani cominciano ad arrivare in cascina Betulla, tutti quanti con la giacca scura e le scarpe buone, e mentre già in chiesa il parroco comincia a prepararsi con i chierichetti per il funerale, ecco arrivare sull'uscio di casa un'auto dei carabinieri. È già passata l'una, il funerale è fissato per le tre. I militari sono imbarazzati, ma devono compiere la loro missione. Sono qui a dire che il funerale non ci sarà, almeno per ora: il magistrato ha disposto altri accertamenti. Vuole capire se nonno Giuseppe sia davvero morto per le mazzate vigliacche di quella terrificante rapina in casa, la sera del 28 febbraio. La legge ha bisogno di perizie e di riscontri scientifici. Ma il giudizio popolare va molto più per le spicce, limitandosi a porre una domanda semplicissima: questo poveretto ha trascorso gli ultimi otto mesi della sua lunga e tribolata vita dentro e fuori dalla rianimazione, davvero qualcuno adesso può pensare sia morto di morte naturale, sereno come un angelo, per sopraggiunti limiti d'età?
Mentre il parentado mormora davanti alla sua povera salma, in attesa che i carabinieri vengano a riportarsela via, sono molti i pensieri che sorgono spontanei. Il primo è doverosamente rivolto alla nostra strana sensibilità collettiva, che libera rabbia e sdegno a gittata variabile: per certi delitti, edizioni straordinarie e serrate nazionali, emergenze di governo e provvedimenti di massima urgenza. Per nonno Giuseppe, tutt’al più, solo un poco di pietà. Come se morire a 88 anni, dopo otto mesi d'agonia, per i colpi di mazza presi nella propria casa, sia in fondo meno increscioso e meno choccante che morire in un viottolo buio della periferia romana, per mano di un selvaggio spietato e senza Dio. No, non esiste. Tutte le efferatezze di quest'epoca violenta dovrebbero avere uguale risalto e uguale sdegno. Nonno Giuseppe è martire quanto la signora Reggiani, e anche quanto il medico milanese soffocato dallo scotch nel letto di casa. Questo nonno ha una storia perfettamente italiana, di quell'Italia grande e fiera che ci ha regalato benessere, comodità, pace. Basterebbe sfogliare il suo album di famiglia, per scoprirlo uguale agli album che tante famiglie ancora conservano nel cassetto del tinello. Il bambino Giuseppe (classe '19) che va subito a lavorare nei campi. Il ragazzino Giuseppe che deve partire per la guerra. Il soldato Giuseppe che torna sette anni dopo, stremato e piagato, miracolosamente scampato alla Sacca del Don. E poi l'italiano Giuseppe, che non si perde in lamenti e piagnistei, ma si rimbocca subito le maniche e fa ripartire il suo Paese. Il fidanzato Giuseppe che finalmente sposa l'amata Maddalena, e con lei sforna otto figli, quattro maschi e quattro femmine, perché una volta l'incertezza del futuro non metteva paura, anzi scatenava energia. E poi: il papà Giuseppe che è laborioso, generoso, devoto al Signore. Tanto che neppure quando il Cielo, 25 anni fa, gli rapisce l'adorata moglie, e neppure nel '92, quando gli porta via l'amato figlio Franco, in un incidente stradale, il patriarca Giuseppe si lascia andare sconfitto e vinto. Ancora una volta riparte, mandando avanti l'allevamento con i due figli rimasti in casa, trecento vacche da latte che sono un modello nell'intera zona...
Da qualche anno, ormai, era solo il nonno Giuseppe di diciotto nipoti. Non potendo più sopportare lavori pesanti, teneva dietro all'orto e al pollaio. La sera, preparava la tavola e metteva su il minestrone per i due figli. Guardando qualche volta la televisione, davanti ai crimini e alle efferatezze di questa tetra stagione, si lasciava andare a un commento laconico: «Neanche in Russia ho visto cose del genere...».
Aveva tutto per avviarsi tranquillo ai tempi supplementari della sua lunga partita, nonno Giuseppe. Era sereno. Si sedeva sulla panchina fuori dalla villetta, con vista sulle stalle, e ringraziava Dio per quanto gli aveva concesso. La meritava, una dolce fine nel suo letto. Invece, quella sera, si è trovato in casa tre odiosi criminali. Se l'ambasciatore romeno non si offende, va detto per dovere di cronaca che erano romeni. Una coincidenza, va bene. Ma conta poco. Conta come hanno infierito a colpi di mazza sul nonno d'Italia e sui due figli, e come poi li hanno legati alle sedie e li hanno buttati giù dalle scale. Tutto per settemila euro e due telefonini, che i padroni di casa avevano subito consegnato. Pare che i delinquenti si fossero alterati perché nessuno rivelava dove stava la cassaforte. Che non c'è mai stata.
Da quella sera, nonno Giuseppe non s'è mai veramente ripreso. Prima in rianimazione a Brescia, quindi a Manerbio. Nel mezzo, un veloce ritorno a casa. Coperto di cicatrici, la testa ancora ferita, una paresi a bloccargli per sempre la parte destra. I familiari lo toglievano a peso dal letto e provavano a metterlo sulla sua panchina, sotto il portico, affacciato sulle stalle. Purtroppo, non è mai servito. Nonno Giuseppe era lucido a metà. Concedeva solo qualche timido sorriso, quando qualcuno gli faceva una carezza. Negli ultimi due mesi, non riusciva neppure più a parlare. Di quella sera, non ha mai ricordato nulla. Soltanto, nei mesi a seguire, ha continuato a cercarsi sul polso l'orologio, chiedendosi dove fosse finito. Non ha mai saputo che gli avevano rubato anche quello, la sera del 28 febbraio.
Povero nonno Giuseppe.

In attesa che gli concedano l'ultimo omaggio, un bel funerale di paese, tutti quanti con la giacca scura e le scarpe buone, qualcuno ha il dovere di concedergli la giustizia che merita. Anche a lui. Anche se aveva 88 anni. Anche se nessuno strillerà mai il suo nome in televisione.
Cristiano Gatti

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