La sfida di Netanyahu: ora tocca ai palestinesi decidere

Per pronunciare quelle tre parole, Stato palestinese smilitarizzato, Bibi Netanyahu ha sofferto i dolori del parto. La casa del padre, lo storico Benzion, il sacrificio del fratello Yoni capo dell’operazione di Entebbe, la sua stessa vicenda di membro della Saieret Mathal, l’unità speciale antiterrore, i libri che fanno di lui un antesignano nel disegnare i pericoli del terrorismo, tutto gli vietava di promettere lo Stato ai palestinesi. Eppure l’ha fatto, non ha detto né «autonomia» né «confederazione con i giordani», ha proprio parlato di Stato palestinese a fianco dello Stato ebraico. E qui sta l’altro punto di novità: Netanyahu ha spostato il tema alla questione reale, quella che nel corso di questi anni ha impedito la pace con i palestinesi. E non si tratta di territorio: si tratta del rifiuto arabo. Bibi l’ha gettato sul tappeto come questione politica, e adesso non ci sarà più chi potrà ignorarlo. Adesso, la palla è nel campo palestinese e arabo, ma anche nelle mani di Obama. Il presidente americano ha fatto sapere di ritenere il discorso un importante passo avanti, ma in realtà il passo deve farlo lui e chiedere ad Abu Mazen: ma voi lo Stato degli ebrei accanto al vostro, lo accettate davvero? Fino a che punto desiderate il vostro Stato? O desiderate di più la scomparsa di Israele?
Per capire bene le ragioni di Netanyahu non dobbiamo farci confondere dalla questione territoriale: Israele non ha mai avuto problemi a cercare di scambiare terra con pace anche a prezzi elevatissimi. Gli è andata bene con l’Egitto, male col Libano, malissimo con i palestinesi da cui ha avuto a ogni sgombero terrorismo e missili. Da qui la richiesta di uno Stato demilitarizzato. Ma il discorso di Netanyahu contiene un’apertura totale sugli insediamenti, al contrario di quello che molti hanno scritto sbagliando, il rifiuto di bloccare la crescita naturale con la determinazione a non sgomberare. Dialogo senza precondizioni, ha detto Bibi. Certo, se si arriva ad accordi potranno esserci swap territoriali ma non verrà chiesto ai palestinesi di rinunciare a spazi che corrispondano ai confini del ’67.
Netanyahu punta soprattutto a una contropartita di carattere ideologico, e se il mondo vuole aiutare la pace è questa la sfida; se Obama vuole la pace, può chiedere a Netanyahu di essere generoso con la terra, e ai palestinesi e al mondo arabo di aprirsi alla legittimità della nazione ebraica. Peccato davvero che in queste prime ore di reazioni si assista al solito rifiuto. Esso appare purtroppo come un odio ontologico, razzista, che nega la storia degli ebrei e l’evidenza della esistenza di Israele come Stato ebraico. Per questo Netanyahu insiste sulla consueta richiesta di abbandonare l’idea del “ritorno” dei figli dei figli dei figli dei profughi, conservati nei campi artificialmente e con crudeltà da tutto il mondo arabo, in modo anomalo rispetto a qualsiasi altro profugo del mondo. Il ritorno - e Rabin, Peres, Clinton, Olmert, Bush, persino la Comunità europea, lo hanno ripetuto in mille trattative fallite - distruggerebbe demograficamente lo Stato ebraico, e quindi insistere significa attenersi alla prima spinta che determinò il rifiuto del novembre 1947 alla partizione: quella del no allo Stato ebraico. Questo no è risuonato negli anni a venire senza un attimo di sosta: con la guerra del ’48; nel ’67 con i tre no di Khartum; a Camp David con il no di Arafat; con Olmert cui Abu Mazen, il moderatissimo, ha detto no alla restituzione del 98 per cento dei territori più parte di Gerusalemme.
Adesso il fatto che Bibi chieda il riconoscimento della nazione che è sempre stata il centro della vita ebraica per 3.500 anni, la richiesta di cessare dal considerare gli ebrei dei casuali intrusi da espellere dalle città che hanno fondato e in cui ormai da duecento anni sono tornati stabilmente e con enormi progressi economici e culturali, pone una sfida che sta a tutto il mondo accettare. Perché i palestinesi non vogliono accettare che Israele sia uno Stato ebraico, come la Palestina sarà uno Stato palestinese? Perché Bashar Assad inveisce contro Netanyahu con l’accusa di apartheid solo perché chiede che gli ebrei stiano a Israele come gli italiani all’Italia? Perché Mubarak dice che la richiesta di riconoscimento dello Stato ebraico rovinerà tutto? Semplicemente perché riconoscere la legittimità dello Stato ebraico significa la fine di un conflitto di cui si è approfittato tutto il mondo arabo. In una parola: la novità del discorso del primo ministro israeliano non consiste tanto nella formula magica dello “Stato palestinese” quanto dello spostamento della questione allo spazio ideologico cui di fatto appartiene, quello del rifiuto o dell’accettazione.

È per questo che la vera risposta a Obama è venuta quando Bibi gli ha detto che, contrariamente a quanto da lui sostenuto, la fondazione e l’origine di Israele non c’entra con la Shoah, con le sofferenze del popolo ebraico, quanto invece con la sua stessa identità che risiede tutta in quel fazzoletto di terra. Che Obama, dunque, spieghi al mondo arabo: uno Stato ebraico per gli ebrei, uno Stato palestinese per i palestinesi.

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