Migaloo dormi sonni tranquilli. Rarissimo esemplare di balena bianca, cioè una megattera albina che ogni anno fa la sua comparsa davanti alle coste orientali dell'Australia, Migaloo in realtà non è a rischio, a rischio sono le sue colleghe dei mari antartici sottoposte da sempre a una caccia spietata. Ma ora Migaloo può rallegrarsi per loro: non saranno più cacciate.
La notizia è di quelle che fanno sensazione: il Giappone, fino a questo momento tetragono sterminatore di cetacei, lo stato che non ha voluto firmare l'accordo internazionale del 1986, ha sospeso la caccia nell'Antartico, non si sa se piegato dalla riprovazione internazionale o dagli attacchi incessanti degli «ecopirati» di Sea Shepherd, l'agguerrita associazione di difesa dell'ambiente che da anni si batte contro le navi baleniere.
L'annuncio ufficiale è arrivato ieri dall'Agenzia della pesca giapponese: «Il peschereccio Nisshin Maru che è inseguito dalle imbarcazioni di Sea Shepherd - ha dichiarato Tatsuya Nakaoku, portavoce ufficiale dell'Agenzia - ha sospeso l'attività dal 10 febbraio per ragioni di sicurezza. E stiamo valutando la possibilità di fermare prematuramente la missione». La flotta baleniera giapponese, composta da un equipaggio di 180 persone su quattro navi, aveva fatto rotta verso i mari antartici l'anno scorso con il proposito di catturare 850 balenottere entro la fine di marzo.
Ma la situazione si è andata facendo sempre più difficile per i continui scontri diplomatici con l'Australia e la nuova Zelanda. Il governo di Canberra, in particolare, aveva presentato nel 2010 una denuncia contro il Giappone al tribunale internazionale dell'Aja.
Ma il vero incubo delle baleniere giapponesi erano e sono i pirati di Sea Shepherd. Con le loro navi attrezzate, tra cui l'intercettatore superveloce Gojira, non danno tregua alle baleniere nipponiche. Tenendosi sulla loro scia, si interpongono con le loro navi e i gommoni fra le navi arpionatrici e le balene. Puntano anche all'ammiraglia Nisshin Maru per impedire che le arpionatrici si avvicinino con il loro carico alla «nave mattatoio». Non contenti, sparano bombe di vernice contro le baleniere, tentano di bloccarne le eliche con funi d'acciaio. Una sorta di caccia indefessa come quella del capitano Achab ma rovesciata: la preda questa volta non è Moby Dick bensì le sue nemiche.
Alla lunga il braccio di ferro si è rivelato insostenibile causando alla flotta nipponica, già in debito con il suo governo, perdite per milioni di dollari. Ed è questo l'aspetto su cui gli ambientalisti puntano per indurre il Giappone alla resa definitiva. Per ora la reazione del fondatore di Sea Shepherd e comandante della flotta di protesta, Paul Watson, è cautamente ottimista: «Se è vero, significa che la nostra strategia ha avuto successo. Per adesso siamo riusciti a bloccare quasi completamente le loro operazioni. Non credo che abbiano catturato più di 30 balene. E ogni balena salvata per noi è una vittoria».
Per poter proseguire la caccia ai grandi mammiferi marini, il Giappone aveva aggirato la moratoria internazionale del 1856 introducendo il concetto «caccia ai fini scientifici» e sostenendo che l'attività baleniera era parte integrante della cultura nipponica. Gli ecologisti dal canto loro ribattevano che la ricerca non c'entrava per niente e che la carne finiva sulle tavole dei giapponesi. Cibo che d'altronde, data l'incidenza delle sovvenzioni governative alla caccia, finiva per costare assai caro ai contribuenti del Sol Levante.
«Lo stop alla caccia alle balene - ha commentato in proposito Giuseppe Notarbartolo di Sciara, presidente dell'Istituto Tethys, organizzazione non-profit per la tutela dell'ambiente marino - è anche frutto della mancanza di supporto della popolazione a questa attività pseudo scientifica».
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