La Sgarbi nel «Deserto» di Ghirri

Venezia Se Michelangelo Antonioni girò il suo Deserto rosso, Elisabetta Sgarbi propone ora il suo Deserto rosa. Certo un titolo per assonanza (in fondo vengono entrambi da Ferrara), ma forse anche una dichiarazione estetica, pur nella diversità dei percorsi professionali. Il film, lungo una cinquantina di minuti (prodotto dalla Betty Wrong e da RaiCinema, passa domani per il pubblico a Orizzonti), è davvero interessante, anche bello. Non ci sono attori, se non Andrea Renzi e Sabrina Colle intrecciati ogni tanto in un ballo notturno che segna il passaggio delle stagioni; gli interpreti principali sono diciotto fotografie di Luigi Ghirri, scomparso nel 1992, che Sgarbi sceglie tra le tante scattate per suggerire un suggestivo viaggio nelle quattro stagioni, più una coda, detta «Primavera notturna».
Film rarefatto eppure corposo, dove le musiche di Franco Battiato, la voce di Toni Servillo e il testo di Aleksandr Sokurov (più brani finali di Vittorio Sgarbi, Diego Marani e Antonio Scurati) offrono a quegli scatti, di per sé già pittoricamente densi, come certe fotografie di Giacomelli, il modo di farsi cinema, racconto, meditazione sulla natura, la presenza dell’uomo, il soffio dello sguardo. «Elegia dell’inappartenenza» è un’azzeccata definizione per questo film atipico che riproduce la finestra della casa di Ghirri, a Roncocesi, per aprirla su quei paesaggi fotografati, all’apparenza quasi reali, concreti, a grandezza naturale. Campagne padane, cieli a pentagramma, distese innevate, uomini che si dissolvono nella nebbia, una stazione di benzina che sembra Hopper, un’altalena piantata nella sabbia con l’Adriatico sullo sfondo...

Sgarbi aggiunge rumori di vita, isola e ingrandisce dettagli, quasi imprime movimento alle forme. L’effetto è struggente, rasserenante: e finisce quasi con l’annichilire le parole di Sokurov, a tratti sentenziose, poetizzanti («Attesa di siccità. Dio non c’è. Non c’è più. È fuggito»).

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