«Dottor Doyle, mi accorgo dal vostro aspetto che siete recentemente stato a Costantinopoli. Ho poi ragione di ritenere che vi siete fermato a Buda, e che non siete passato lontano da Milano».
«Meraviglioso. Cinque franchi per il vostro segreto. Come avete fatto a scoprirlo?».
«Ho guardato le etichette incollate sul vostro baule».
È una delle tante storielle inventate dai fan sherlockiani. La riferisce Arthur Conan Doyle stesso, nella sua autobiografia. Fa sorridere, ma anche pensare. Perché, in fondo, il vetturino che conduce lo scrittore a un hotel di Parigi si comporta, con il celebre interlocutore, come quest’ultimo si comporta con il lettore delle storie che hanno per protagonista l’inquilino del 221B di Baker Street. Il vetturino (prima battuta), millanta straordinarie capacità deduttive, ma non ha fatto altro (seconda battuta) che notare le etichette dei vari alberghi appiccicate sul baule. E Conan Doyle, da parte sua, fa dire a Sherlock Holmes ciò che gli fa dire (gli esperti hanno contato 217 inferenze, nelle avventure del detective più famoso al mondo) perché lui e soltanto lui conosce la Verità. È lui che la scrive, è lui che la inventa. È lui che vede per primo quella macchiolina di fango, o quel mucchietto di cenere destinati poi (da lui) a essere decisivi per l’indagine.
In L’emploi du temps, Michel Butor riferisce le parole di George Burton, autore di numerosi romanzi polizieschi: «ogni romanzo poliziesco è costruito su due omicidi di cui il primo, commesso dall’assassino, fornisce l’occasione per il secondo nel quale questi è la vittima di quell’assassino puro e impunibile che è il detective». Ma l’investigatore non è che un sicario pagato dall’autore.
In ciò consiste la forza avvincente del poliziesco: nello sdoppiamento della realtà di cui è vittima il lettore. Che cosa fa il lettore? Segue i fatti narrati non dall’esterno, bensì dall’interno. Diviene inconsapevolmente, nel mondo parallelo della lettura, una parte della narrazione. L’autore cattura il lettore apparecchiandogli sotto gli occhi un complesso sistema di testimonianze, prove, complicità, misteri, ipotesi. E, a capo di un percorso più o meno lungo e arduo, gli dice: «ma come, non avevi capito? Ma se ti ho fornito tutti gli elementi per capire!». «Certo che me li hai dati. Me ne hai dati fin troppi!», ribatte il lettore-vittima confessando: «non ci ero arrivato».
Ciò vale per il poliziesco classico, che procede spedito, a ritroso, dall’effetto alla causa, dall’omicidio a chi lo ha commesso. Stiamo parlando degli Hercule Poirot e dei Philo Vance, delle miss Marple e dei Nero Wolfe. Poi, naturalmente, c’è quello che Tzvetan Todorov chiama genericamente «romanzo nero», il quale procede nel percorso inverso: dalla causa all’effetto. È l’hard boiled degli Hammett e dei Chandler, con tutte le varie filiazioni, molte delle quali illegittime, pulp e/o horror e/o psicho e/o supernatural che dir si voglia. In ogni caso, l’inesauribile emporio del genere letterario più popolare, l’infinito gioco a guardie e ladri non è soltanto intrattenimento. È anche filosofia.
Ce lo spiega un bel saggio di Renato Giovannoli, Elementare, Wittgenstein! (Medusa, pagg. 374, euro 29). Accogliendo l’affermazione di Deleuze secondo il quale «un libro di filosofia deve essere \ una specie particolare di poliziesco», l’autore svolge la propria indagine smascherando molti... «colpevoli» di idee. «Dal lato del poliziesco classico - scrive - abbiamo Cartesio e Leibniz, il razionalismo filosofico, il primo Wittgenstein, la deduzione, l’analisi e la metafora della catena; dal lato del poliziesco d’azione, Peirce, il pragmatismo, il secondo Wittgenstein, l’abduzione, la sintesi e la metafora del filo». Certo, con il tempo le cose si complicano, i criminali si fanno sempre più furbi e sfuggenti. All’iper-razionalismo di Sherlock Holmes risponde il trasformismo di Arsène Lupin, alla pazienza certosina di Poirot si oppongono geni del male che tanto somigliano al buono-cattivo o cattivo-buono Vidocq. «All’inizio - spiega Giovannoli - c’è la fede nell’evidenza dell’indizio, e in particolare nell’indizio materiale, su cui Holmes fonda il suo metodo. Ma i ladri gentiluomini, capaci di simulare gli indizi materiali, mostrano i limiti di questo approccio. Chesterton e Van Dine tentano allora di superare la crisi facendo ricorso a indizi psicologici, che ritengono più affidabili e non passibili di falsificazione. Psycho, infine, mostra che anche gli indizi psicologici possono essere simulati».
E siamo da capo. Chi simula, prima del colpevole o presunto tale, è lo scrittore. «Per prima cosa bisogna formarsi un’idea. Trovata la chiave, è necessario cercare in tutti i modi di nasconderla, ponendo invece in evidenza quanto può indurre a una spiegazione diversa». Nella Lettera rubata di Poe, infatti, Auguste Dupin scopre che la lettera è sempre stata... sotto il naso di tutti quelli che l’hanno cercata. Sotto il naso anche di Jorge Luis Borges, grande ammiratore delle detective story classiche, il quale fa notare che «la soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero. Questo partecipa del soprannaturale e finanche del divino; la soluzione, del giuoco di prestigio». In altri termini: il «mistero» è filosofico, la «soluzione» è scientifica.
Proprio La scienza di Sherlock Holmes è intitolato il libro della storica del crimine E.J. Wagner (Bollati Boringhieri, nelle librerie italiane tra pochi giorni). In questo lungo excursus apprendiamo, a esempio, che decenni prima della pubblicazione del Mastino dei Baskerville, fu Charles Darwin a «profetizzare» l’esistenza di una certa specie di insetto con la proboscide lunga un piede, usata per impollinare una certa specie di orchidea... Apprendiamo poi che il primo «indagatore della morte» della storia, cioè il primo detective, fu un cinese. Si chiamava Sung T’zu e nel 1235 a.C. scrisse un testo singolarissimo: Hsi yuan chi lu, cioè Il lavaggio dei torti, in cui troviamo la prima indagine «poliziesca» di cui si abbia notizia. In un villaggio un tale viene ucciso con un falcetto. L’investigatore convoca sulla piazza tutti i possessori di falcetti e ordina loro di posarli a terra. Dopo qualche minuto, sull’arma del colpevole si posano alcune mosche attratte dai resti di sangue che l’assassino non aveva ben lavato.
Apprendiamo anche che Uno studio in rosso, il primo romanzo in cui compare l’ineffabile e infallibile creatura di Conan Doyle, ebbe più successo negli Stati Uniti che in Inghilterra, perché la vicenda che viene lì narrata mostrava numerosi punti di contatto con un caso realmente verificatosi laggiù. E apprendiamo che nella Londra vittoriana visse e operò, ben prima del debutto di Holmes, un investigatore dalle doti molto... holmesiane: Henry Goddard. E che i criminologi Hans Gross, austriaco, e Harry Söderman, svedese, misero per iscritto, nei loro studi, molti casi quasi sovrapponibili a quelli trattati, in forma letteraria, dal sir scozzese.
Il quale sir, forse, volle mettere i propri lettori sulla strada giusta facendo dire più volte a Watson, fedele «spalla» del suo eroe, che Holmes è, come ricorda la Wagner, «un appassionato collezionista di libri e articoli riguardanti vecchi criminali».Compiere il delitto perfetto, dicono, è impossibile. Per scriverlo, basta avere una buona penna e attingere a fonti ben informate.
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