LO SHOW DELLE PANCHINE

Piero Bucchi da ieri non è più l’allenatore dell’Olimpia Armani Milano. La notizia era nell’aria dopo la sconfitta netta contro Cantù, ma quello che nessuno poteva immaginare è il nome dell’uomo che lo sostituirà in panchina: Daniel Lowell Peterson. Sì, avete letto bene, 75 anni il prossimo 9 gennaio, capricorno di Evanston, la città delle chiese, periferia di Chicago, il nano ghiacciato che nel 1987 lasciò la panchina di Milano per troppo stress dopo tante vittorie e mille battaglie, uscendo comunque a braccia alzate per aver conquistato tutto nella società nata, come lui americano irlandese, indiano, cittadino del mondo e difensore di ogni tradizione proprio nel 1936.
Chi non sopportava più Bucchi sorride, chi si sentiva orfano della vera Olimpia tira un sospiro di sollievo. Qualcuno giura di essersi emozionato per questa notizia, altri confessano di aver rivisto in una attimo la luce, provando qualcosa che non sentivano più per il basket di Milano da troppo tempo.
Ora speriamo che le complicazioni burocratiche non gli facciano cambiare idea nella notte. Auguriamoci che il parsimonioso Peterson sia a posto con i pagamenti per il rinnovo della sua tessera di allenatore. Speriamo non ci siano ostacoli professionali, dovrà prima di tutto sganciarsi dal suo contratto televisivo con Sport Italia, ma Bruno Bogarelli il suo primo grande tifoso non gli ruberà certo questo ritorno nella casa dei padri di uno che Milano doveva prendere in considerazione molto tempo fa. Adesso sembra davvero un po’ tardi, anche se ci stupirà come sempre, e con Peterson bisogna andare cauti quando ci sono di mezzo orgoglio, pregiudizio, ma soprattutto quattrini. È un tipo che non si è ritirato nell’eremo, ha sofferto e vissuto tutti i cambiamenti della società, criticandoli dentro se stesso, pensando ai probabili correttivi e lo si capiva proprio quando in eurolega doveva commentare l’Armani che ha perso il treno più ambito. «Faccio questo solo per l’Olimpia, non lo farei per un’altra squadra. Io ho dato la mia disponibilità e lo faccio col cuore. Tutto questo però doveva rimanere segreto», dice Dan. Compresa l’ipotesi di contratto fino a giugno.
Chi lo ammirava, temeva, ma, sotto sotto, faceva dell’ironia sul suo modo di compattare un gruppo e di farlo giocare, tornerà sulle tribune soltanto per vedere se ha mantenuto la magia. Certo che l’allenatore non è un mago, ma per guidare altri uomini devi avere qualcosa, prima di tutto carisma e poi la società. Il Peterson arrivato nel 1973 a Bologna, quasi per caso, allenava la nazionale del Cile, si presentò con la chitarra, i capelli lunghi, sembrava pronto per essere cotto e mangiato nella città dove il basket era religione e che lo battezzò fra i grandi perché all’esordio vinse subito la coppa Italia. Ci pensò l’avvocato Porelli a proteggerlo e a cambiarlo, lo ammette lui stesso, poi Milano, l’impatto con il mito Olimpia, Rubini appena uscito dalla scena, Bogoncelli che stava passando la mano,Tony Cappellari che univa le due anime della società più titolata d’Italia. Non furono subito vittorie, ma la sua banda Bassotti, sì, era il tempo in cui si stuzzicavano i giocatori in maniere diverse, la squadra che avrebbe dovuto lottare per non retrocedere, arrivò alla finale proprio contro la Virtus, che portò al titolo nel 1976, 20 anni dopo l’ultimo successo, lasciata a Terry Driscoll, capo dei suoi pretoriani in campo. Era la stagione 1978-79. Rimase sulla panchina Olimpia fino al 1987 quando vinse il terzo scudetto consecutivo, il quinto di una carriera italiana che gli aveva dato anche l’Eurolega, sempre nell’87, vittoria sul Maccabi, 1 Korac (’85), 3 coppe Italia.
Quando Peterson esagerava la società lo proteggeva, quando sognava troppo in grande lo frenava, ma era sempre con lui. Ecco, nel ritorno a casa troverà un mondo completamente cambiato e Livio Proli, per adesso, non assomiglia davvero agli uomini che lo hanno accompagnato verso la gloria. Forse è questo che ha cercato di capire nelle ultime ore, chiedendo i correttivi alla squadra che erano indispensabili anche confermando Bucchi: un vero centro, un regista che possa sintonizzarsi subito con il suo modo di vedere basket. Senza questi correttivi sarà tutto molto difficile e la società, scegliendo questa soluzione che ha sconvolto il piccolo mondo antico del basket, non può pensare che sarà Peterson a togliere dalla faccia dei giocatori quella paura, quel grigiore che li ha fatti affondare con Valencia e poi a Cantù, un gruppo che è pur sempre secondo in classifica avendo perso soltanto 3 partite, una delle quali la stangata di Siena sfidata apertamente all’inizio dell’anno.
Serve molto di più e in questo ci deve essere un intervento immediato.
Non sappiamo se Peterson sarà già in panchina domani sera al Forum, nell’ anticipo di campionato contro Caserta, ma di certo la sua voce in spogliatoio si farà sentire («Se si scende in campo con grinta e convinzione di vincere, ci si può riuscire», dice dettando la prima ricetta elementare) e Giorgio Valli, l’assistente di Bucchi che resterà al suo posto, andrà comunque in campo con questa protezione supercarismatica.
Ce la farà il nano ghiacciato a saldare il debito con Milano lasciata quando ancora avrebbe avuto tanto da dare alla società e al basket italiano? La domanda se la fanno quelli che considerano gli allenatori dei maghi, ma anche quelli che sanno cosa vuol dire presenza in uno spogliatoio, cosa vuol dire chiarezza nell’assegnazione dei compiti. Poi tutto dipenderà dai giocatori, come sempre, uomini non scelti da Peterson, tipi strani che promettono sempre fedeltà, ma poi perdono il controllo appena li metti in discussione.
Dan Peterson è nato il 9 gennaio 1936, nel giorno dell’ambizione, è un tipo tenace, risoluto, pieno di risorse perché ha la mente aperta. Certo è anche autoritario e bisogna vedere se le sue vecchie prese di lotta, quelle che minacciava di usare con i nemici, funzioneranno anche adesso a 75 anni, certo è un tipo inflessibile su certi principi del gioco e, sicuramente, è un uomo che prende sempre sul serio quello che si dice di lui. Oggi l’Olimpia dovrebbe ufficializzare tutto, se non sarà così a Peterson resterà la soddisfazione di poter leggere da vivo quello che avremmo detto di lui il giorno del grande addio e su questo mediterà ancora.

Il suo principio base è sempre stato quello di osservare i bambini e gli uomini che giocano, cercando d’imparare da loro, insegnando a tutti che non si vive per arrivare secondi anche se può succedere, come è capitato a lui tante volte in carriera. Ma sempre da protagonisti e non da vittime designate.

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