Si può trattare con Hamas: non è il diavolo

Massimo Introvigne

Ora che Hamas ha vinto, da Washington a Tel Aviv a Bruxelles l’interrogativo che risuona è: si può trattare con Hamas? O con chi ha compiuto centinaia di attentati suicidi, ha fatto più di mille morti, ha tirato razzi perfino sugli asili israeliani, non si può e non si deve trattare - mai, comunque, dovunque? La vulgata secondo cui Hamas è «semplicemente» un gruppo di terroristi è semplicistica. La realtà storico-politica di Hamas passa per il terrorismo, ma non si riduce a questo. Hamas non è Al Qaida, e nessuno dei suoi leader è Osama Bin Laden. L’organizzazione fondata dal defunto sheikh Yassin, branca palestinese dei Fratelli Musulmani, è un movimento fondamentalista nazionale capace di coniugare la poesia dell’ideologia con la prosa della politica. Hamas è stato sempre contro la pace nel senso che non ha mai potuto tollerare un processo di pace egemonizzato da Fatah e condotto nella prospettiva dell'instaurazione di uno Stato laico in Palestina. Almeno la dirigenza «interna» di Hamas nei Territori, distinta da quella più radicale in esilio (di recente, assai influenzata dal presidente iraniano Ahmadinejad), ha dato reiterati segnali di essere interessata a un processo di «tregua» con Israele, purché non si usi la parola «pace». La distinzione non è puramente terminologica: secondo Hamas il perseguimento della «pace» de-islamizza la questione palestinese riducendola da religiosa a politica e preparando così la strada all’instaurazione in Palestina di uno Stato laico, che nessun movimento fondamentalista può evidentemente accettare.
D’altro canto, le avanguardie militanti e terroristiche sono pesci che hanno bisogno di nuotare nell’acqua di un certo consenso popolare, consenso che è stato massimo nella prima Intifada e nella seconda e minimo all’indomani immediato degli accordi di Oslo, costringendo Hamas a muoversi con cautela assai maggiore. Nel momento in cui i palestinesi hanno cominciato a sperare in una pace possibile, Hamas - pur continuando gli attentati - ha elaborato anche l’idea di una tregua di durata indeterminata. Non una qualunque promessa di pace, ma la continuazione di quel processo avviato da Ariel Sharon con il ritiro da Gaza, che convinca i palestinesi di potere ottenere vantaggi immediati, concreti e visibili, può persuadere almeno una parte di Hamas, isolando la sua componente più oltranzista, a trasformare il «treguismo» in quello che (parole a parte) sarà di fatto dialogo sulla Road Map. Su questo scommetteva Sharon che, senza troppo dirlo, da mesi trattava in segreto con la componente «treguista» di Hamas. Se questa politica non continuasse, si rafforzerebbe invece in Hamas la componente oltranzista filo-iraniana.
Comunque sia, le elezioni dimostrano che Hamas è ormai così radicato nella società palestinese da rendere utopistica l’idea di una sua eliminazione per via militare, e che l’Occidente deve piuttosto utilizzare a suo profitto l’esistenza in Hamas di «correnti» e la divisione fra la dirigenza «esterna» in esilio e quella «interna» ai Territori, aprendo un dialogo con le componenti più «treguiste» e pragmatiche, che spesso fanno capo ai sindaci e agli amministratori locali.


Un proverbio inglese afferma che per cenare col Diavolo e mangiare la sua stessa zuppa occorre munirsi di un cucchiaio con un manico lunghissimo, per evitare di avvicinarsi troppo e di cadere nel pentolone demoniaco. Le elezioni palestinesi sono il segnale che per l’Occidente diventa ora urgente cominciare ad approntare quel cucchiaio.

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