Quando i grandi vecchi cominciano a raccontare i loro sogni, la politica ricorre alla psicanalisi. E se questi sogni riguardano il governo di Romano Prodi c'è da star certi che sono degli incubi. Giovanni Sartori qualche giorno fa e Eugenio Scalfari ieri hanno allietato i lettori di Corriere della Sera e Repubblica. Il professore fiorentino ha spiegato a Prodi che bene farebbe a uscire dal «bertinottismo», che non male sarebbe per lui registrare il fatto che ha «una maggioranza spappolata e friabile» e dulcis in fundo saggio sarebbe per lui accettare l'aiuto della coalizione dei volenterosi per riscrivere la Finanziaria. L'incubo del Fondatore invece è di segno opposto, di segno prodiano, nel senso che il sogno di Scalfari è del tipo après moi le deluge, dopo Prodi c'è il diluvio, il caos sociale, un Paese fuori controllo e un'Italia dove «le sirene della polizia suonavano a distesa». Entrambi i sogni sembrano il prodotto di un tormentato lavorìo del subconscio che segnala il problema: la maggioranza scricchiola in maniera sinistra e cè qualcuno che sta pensando seriamente di calare le scialuppe per non colare a picco con il vascello prodiano. Berlusconi - e Scalfari da par suo lo registra - ha spiazzato tutti con la proposta di un governo di larghe intese, riaprendo sì i giochi nellopposizione (che da qui potrebbe prendere le mosse per costituire un partito conservatore sul modello francese) ma anche i dubbi dentro un centrosinistra che sa di non poter contare su un governo di legislatura. È questo il punto di partenza della cosiddetta «fase due», le larghe intese, la grande coalizione sono un fantasma che aleggia nelle stanze di Palazzo Chigi, Palazzo Madama e Montecitorio al punto da far dire a Bertinotti che «sarebbe un momento drammatico della mia vicenda personale, uno scenario al quale non voglio pensare. Per il nostro popolo sarebbe una sconfitta terribile. Non si potrebbe cambiare il presidente della Camera? Una situazione del genere sommerebbe la sconfitta, la resa, il compromesso inaccettabile. Non voglio usare toni troppo gravi, ma le sinistre dovrebbero ripensare tutto».
Il tono apocalittico di Bertinotti (che poi però fa sapere che le cariche istituzionali sono indipendenti dal quadro politico) è la cartina di tornasole degli esiti del vertice di maggioranza a Villa Pamphilj: doveva essere un check politico sulla Finanziaria e invece si è trasformato in una conferenza stampa di Prodi che assicurava perentorio la sua durata per cinque anni. Lostentata sicurezza del presidente del Consiglio però stride con la cronaca. I giornali hanno subito puntato i riflettori sui soliti sospetti: Lamberto Dini, dipingendolo come luomo pronto al cambio di casacca e il grande sospettato; Franco Marini, il presidente del Senato che ieri spiegava di «non essere disponibile per alcun governo elettorale»; Giuliano Amato che dallassemblea dellAnci a Perugia rassicurava gli alleati dicendo che «le sorti del governo non sono in discussione». Troppe precisazioni per un governo solo.
Il problema della tenuta dellesecutivo sta nei numeri e nella sostanza politica. I numeri sono quelli di Palazzo Madama dove arranca con il voto decisivo dei senatori a vita e il problema politico è nella frattura sempre più evidente tra gli obiettivi dei riformisti e quelli dellala sinistra della coalizione. Il combinato disposto di questi fattori ha già prodotto tensioni enormi e un rovinoso scivolone in aula (sugli sfratti) e anche i più ottimisti sanno che una legislatura in quelle condizioni non si porta a termine. Non a caso ieri Gianfranco Fini spiegava che «quando cadrà, il governo Prodi non cadrà per una rottura a sinistra, ma per una rottura al centro». È soprattutto nel quadrante della Margherita e dellUdeur che si gioca la battaglia navale dellUnione. Ma non solo. La questione settentrionale è tutto tranne la deriva populista di cui parla chi non vuole vedere cosa succede al Nord.
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