«Siamo preoccupati anche noi»

Daniele Petraroli

Adesso hanno paura i somali di Roma. Temono rappresaglie, episodi di razzismo,controlli e arresti ingiustificati. È bastata la voce che il terrorista di Londra avesse un passaporto somalo per spaventare la numerosa comunità presente nella capitale.
Così in piazza della Libertà 22, sede dell’ex consolato, nella mattinata di ieri non si trovava nessuno. Cancello sprangato, vetri chiusi e nessuna risposta al citofono. Scrutano da dietro le finestre preoccupati ma di aprire la porta non hanno alcuna intenzione. Solo dopo qualche insistenza accetta di parlare l’ex viceconsole. «Siamo molto preoccupati, inutile nasconderlo - comincia Mohammed Yusuf -, tutti hanno paura di ripicche e rappresaglie». Nemmeno la notizia che Osman Hussain (vero nome Hamdi Isaac) e suo fratello Ramzi sarebbero etiopi serve a tranquillizzarlo. «Ramzi effettivamente non è un nome somalo. Il problema, però, è che eritrei, etiopi, somali e sudanesi meridionali si somigliano tutti. È per questo forse che hanno utilizzato documenti nostri». Probabile, anche se la verità sembra un’altra. Lo Stato somalo non esiste più ufficialmente dal 1991 e quindi nemmeno documenti ufficiali. «Passaporti falsi ne circolano. Comprarne di veri, poi, non è difficile. E con un documento del genere in mano è molto più semplice ottenere il permesso di soggiorno o l’asilo politico. Inoltre è più difficile per gli inquirenti proseguire le indagini». Ecco la vera motivazione.
I due uomini arrestati, poi, non li conosceva nessuno. «Non li abbiamo mai visti qui - prosegue Yusuf -. Uno, a quanto sembra, è arrivato a Roma negli ultimi giorni, dell’altro non sappiamo nulla. Sicuramente non ha mai frequentato né il consolato né l’ambasciata». Monitorare la comunità somala in Italia, proprio per la mancanza di una struttura statale non è semplice. «Fino al 1991 - continua Yusuf - eravamo al corrente di ogni cosa avvenisse nella nostra comunità. Ora non è più così. Spero che ora i somali residenti in Italia vengano da noi per registrarsi e regolarizzare la loro posizione». Proprio per questo l’avvocato Douglas Duale, responsabile legale della comunità, ha annunciato la costituzione di un centro per monitorare i somali presenti in Italia e per segnalare eventuali persone sospette. «Come funzionerà esattamente non lo so - conclude Yusuf -. Quel che è certo che il terrorismo è assolutamente estraneo alla cultura del nostro Paese. Per noi, poi, l’Italia è una seconda patria e nessun somali si è macchiato di altri reati. Niente droga o prostituzione per esempio. Comunque ci interessa sapere la verità su questi presunti terroristi. Come sono molti preoccupati gli italiani così lo siamo anche noi». La comunità somala è composta al cento per cento da musulmani che frequentano la Grande Moschea di Roma ma, assicura Yusuf, «lo sono in senso pacifico».
In via dei Villini 9, sede di quella che fu l’ambasciata, l’angoscia, invece, è dissimulata. «Perché dovremmo aver paura? - domanda un ragazzo sui vent’anni - Noi siamo persone a posto. Non abbiamo niente da nascondere. Ha paura chi sa di aver sbagliato». Ragionamento che non fa una piega, però, per rispondere a una semplice domanda escono in quattro dal giardino della villa. Inoltre la voglia di parlare è davvero poca. «Arrivederci e grazie», dicono mentre cortesemente ci spingono fuori dal cancello. Abitano in decine lì dentro.

Molti sono semplici ragazzi arrivati in Italia, spesso, senza regolari documenti vista la mancanza di uno Stato somalo che li potesse concedere. La paura di attentati, la stretta sui clandestini, la voglia di non concedere vantaggi alla macchina del terrore li mette ora in una difficile posizione.

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