Diego Pistacchi
da Genova
Con la testa appena uscita dal casco del coiffeur. Con il foulard firmato al collo. E con una faccia proprio un po’ così, di quelle che ci vogliono per andare in giro per Genova a fare la rapinatrice. Per gioco. Per non andare a sedersi alla panchina del parco. Per vedere di nascosto l’effetto che fa finire sui giornali come la prima ladra gentildonna, un Arsenio Lupin con il rossetto, una figura da feuilleton ottocentesco, una signora annoiata, stanca dei viaggi ai Caraibi e stanca soprattutto di tirare fuori la carta di credito per pagare un gioiello. Tutte cose scontate, che a cinquantanove anni non danno più emozioni. Anna Maria V. sentiva in sé centomila motivi per non vedersi già in coda alla posta, appoggiata a un bastone, in attesa di ritirare la pensione. E quei centomila motivi li ha trovati. In euro. Per la precisione, in gioielli.
Una donna che non deve chiedere mai, è ovvio, non li ha pagati. Li ha visti, li ha provati, se li è presi. Con la naturalezza di una cliente di vecchia data, indecisa tra un anello e un orecchino. Con la classe di una bella e distinta signora bionda che in gioielleria non potrebbe insospettire neppure con la mascherina calata sugli occhi. Una tecnica infallibile, se non fosse stato per quell’idea dei carabinieri di piazzare una telecamera segreta nel negozio più svaligiato della città, che ogni tanto si trovava le vetrine laterali svuotate. La titolare ogni volta provava a riavvolgere il nastro della memoria per aiutare gli inquirenti. Niente da fare. Quel giorno non aveva visto facce strane, aveva servito solo persone per bene. Nessuno aveva forzato le vetrine.
Ci doveva essere un particolare di quelli che sfuggono, almeno a prima vista. E per scoprirlo occorreva riavvolgere il nastro magnetico, quello che si può guardare e riguardare al rallentatore. Alla fine, eccolo, il momento chiave. Neppure la titolare dell’oreficeria ci voleva credere. Eppure i gioielli erano al loro posto prima dell’arrivo di Anna Maria V. Poi, subito dopo non c’erano più. Degli anelli restava solo l’etichetta col prezzo, seminascosta in un rotolo di moquette che sta sul retro del negozio, buttata via per non dare nell’occhio. Un’operazione fatta con rapidità e freddezza, con la scusa di andare in bagno o di rispondere a una chiamata un po’ riservata sul cellulare. Per la precisione, i gioielli uscivano dal negozio ben nascosti nelle mutandine della ladra.
Occorreva una controprova. E quella era nella casa dell’insospettabile pensionata. Una prova fatta di una collezione di gioielli degni di una principessa, molti dei quali non pagati. Più di centomila euro di valore, solo di refurtiva. La maggior parte, oro e pietre preziose per oltre settantamila euro, veniva tutta dallo stesso negozio vicino casa, quello dove Anna Maria era conosciuta come cliente. Ma, una volta scoperta, la ladra al di sopra di ogni sospetto ha ammesso che non si era concentrata solo su una gioielleria. E che c’erano altri anelli, braccialetti, collane rubati in vari negozi della città. Ormai non si ricordava neppure più dove aveva colpito e ora toccherà ai carabinieri cercare i legittimi proprietari di quel bottino.
Inevitabile un’accusa per furto aggravato e ricettazione. Ma inevitabile anche, per gli uomini del maggiore Vito Di Gioia che dovevano interrogarla, chiedere alla gentildonna terribile il perché di quell’hobby un po’ strano per una pensionata. «Sì, è vero sono benestante, non avevo bisogno di rubare - ha risposto Anna Maria V. con la sua faccia un po’ così -.
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