Spettacoli

Il silenzio è trasgressione. Il resto è solo pubblicità

Oggi sono tutti "maledetti", perfino negli spot L'introspezione è il vero anticonformismo

Il silenzio è trasgressione. Il resto è solo pubblicità

È una sera piovosa. All'incredulo Capitano Lebjadkin, che si vede riparato dalla pioggia dall'uomo di cui venera perfino i piedi, il suo signore e padrone risponde «chiunque merita un ombrello». La scena può sembrare insignificante, ma il contesto non lo è affatto. Si tratta da un lato di Dio e dall'altro dei diritti umani. Lebjadkin ha appena appreso dalla bocca di Nikolaj Stavrogin che Dio non esiste, e il suo sconcerto è grande: «Se Dio non esiste, sono ancora capitano io?», si è chiesto. Ma ecco che colui che gli ha oscurato il cielo sostiene un ombrello sulla sua testa, riparandolo dalla pioggia. È il grado zero dei diritti umani: avere un ombrello.

La scenetta, tratta da I demoni di F. M. Dostoevskij, è la registrazione quasi stenografica di un cambio d'epoca: è finita l'epoca di Dio ed è iniziata quella degli ombrelli, ossia delle tutele e delle garanzie. È il trionfo della società, ossia della borghesia moderna, che fa affari, legge romanzi, paga la polizza di assicurazione e ammette gli imprevisti solo come qualcosa di provvisorio.

Contro questo nuovo assetto del mondo si sono schierati, tra la fine del XIX e la fine del XX secolo, uomini che rivendicavano l'antico, il primordiale come oracolo di una verità estinta (lo dice anche Pasolini nella sua poesia più famosa, Io sono una forza del passato). Uomini la cui lingua assume una forza profetica, o oracolare, o artatamente barocca come a voler fare violenza su questa nuova sintassi umana, ordinata e rassicurante. In Francia furono chiamati maudits, maledetti. Ma il seme di questa maledizione si trova ovunque.

Uno di loro, tra i più estremisti, fu Antonin Artaud, di cui l'editore L'Orma ripubblica in traduzione rinnovata L'arte e la morte (pagg. 85, euro 14). Artaud è stato durante tutta la sua vita (compresi i dieci anni trascorsi in manicomio) una di queste voci primordiali. Tra gli anni '60 e '70 la sua opera più celebre, Il teatro e il suo doppio, fu testo imprescindibile per chiunque volesse avvicinarsi ai segreti di queste due muse sporche di vita, talora scorbutiche (Melpomene e Talia). Poi Artaud rimase oggetto di innamorati e studiosi, immagine di culto di animi decadenti e malati di estetica che eleggono l'estremismo e l'eccesso a unico ambito di vita possibile. Ma Artaud non era un esteta.

Il libro, magnificamente curato e tradotto, contiene testi scritti tra il 1925 e il 1929 per diverse riviste. Il titolo si presenta pertinente soprattutto al primo testo, il più denso e difficile, da rileggere una volta finito il percorso intero, ma poi serpeggia in tutte le divagazioni erotiche che costituiscono il corpo del libro: arte e/è morte. Un concetto inspiegabile con discorsi, e comprensibile solo se, a monte, si stabilisce una profonda empatia. Nei due testi più suggestivi Artaud si impossessa, sviluppandola, della storia d'amore tra Abelardo - insigne logico e filosofo vissuto tra il XI e il XII secolo - e la sua allieva-amante Eloisa, storia interrotta (ma non conclusa, come dimostrano le lettere successive tra i due) con la castrazione del primo. Una vicenda trucida, tutta carnale, in un'epoca tutta carnale, quando per essere ammessi in un monastero bisognava conoscere tutti i 150 Salmi a memoria e recitarli per tre volte standosene nudi in una botte piena di acqua ghiacciata.

Artaud però non s'interessa alle vicende storiche, non stabilisce contesti, è nemico di ogni contesto. Scrive la propria autobiografia di morte trasformandosi ora in Abelardo, ora in Van Gogh, e sceglie (senza identificarvisi) la più de-contestualizzante delle estetiche, il Surrealismo, di cui assume le idee portanti: la realtà (e l'arte) come gioco soggettivo, l'automatismo come deflagrazione degli istinti e dei conflitti repressi, la sessualità esibita come motore di ogni creazione. Fu il suo grimaldello contro la società degli ombrelli e delle garanzie.

E le rivelazioni, le epifanie si susseguono, in queste splendide pagine, a ogni riga. Artaud scandaglia il mistero dei corpi, diffida delle pulsioni del desiderio (di cui il sesso non è affatto il coronamento), identifica il godimento con qualcosa di non aspettato, anticipando di decenni illustri autori (da Girard a Derrida). La sua follia è saggia, restituisce vita a radici antiche.

Ma oggi, a.D. 2023, che ne è di chi patisce l'estraneità, di chi si sente espatriato e oppresso in casa propria? Che ne è dei maledetti - scrittori, poeti, artisti? Di tutti quelli per cui arte e morte sono sorelle siamesi? È ancora sufficiente affidare la propria difformità, la propria unicità a un gesto provocatorio, a un linguaggio terremotato, in un tempo in cui la provocazione è metodo e sistema pubblico, e in cui la maledizione è trasformata (senza malizia) in classicità? I Rimbaud, i Baudelaire, gli Artaud, i Dostoevskij, i Testori sono tutti sistemati nello scaffale dei Classici, e non per chissà quale perversa volontà di normalizzazione ma per una legge universale. A chi visse tra gli scherni e gli insulti si dedicano piazze, convegni, aule universitarie.

Ma una volta digeriti tutti i linguaggi, tutti i sistemi filosofici, una volta museificate tutte le difformità, dove e come si conserva un nucleo profetico, oracolare? Che forma prendono voci come quelle di Rimbaud, di Artaud, di Van Gogh, di Kafka? Da dove prendere la forza per riascoltare quelle voci antiche nella loro forza primordiale, a-culturale, senza introduzioni, senza ombrelli?

In un suo bellissimo libro edito qualche mese fa, Il bisogno di introversione (Raffaello Cortina Editore, pagg. 160, euro 14), lo psicoanalista Paulo Barone individua l'introversione come cifra segreta del mondo contemporaneo. In un mondo in cui il motto «sii te stesso» è diventato una lallazione da Instagram, la bussola per restituire personalità e unicità alle nostre parole oggi si trova, dice Barone, nella ricerca di un luogo inviolato e personale. La società non è più così schematica da poter essere sfidata con la trasgressione. L'originalità, lo star fuori dal coro, il disprezzo dei luoghi comuni sono materia da spot pubblicitario di un'automobile, di un detergente intimo. Per questo Barone sposta il luogo della riscossa nel silenzio, nella capacità di ascolto di questa voce spesso sconosciuta che parla in noi.

Al tempo di Artaud, fino a Giovanni Testori, una scelta culturale di campo era inevitabile e definiva un destino: se stavi con Testori diventavi una cosa, se stavi con Calvino diventavi qualcos'altro.

Oggi non è più così: oggi chi ama la poesia e l'arte deve intraprendere un cammino personale, quasi sempre solitario, farsi strada tra mille segnali ambigui, affrontare le biforcazioni della strada: accettando di vedere incenerite le immagini con le quali, all'inizio del cammino, aveva identificato la verità, la bellezza o anche solo la consolazione che cercava, e accettando di sentire parole persuasive da chi non si sarebbe mai aspettato.

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