Il sindaco che pareggiava il bilancio con la legna

Il sindaco che pareggiava il bilancio con la legna

Sarà intitolata a Vittorio Pertusio, sindaco di Genova dal 1951 al 1960 e poi ancora dal 1961 al 1965, giurista e uomo politico, la nuova passeggiata in legno della Darsena, che conduce fino al Galata Museo del mare e che attualmente si chiama Calata Vignolo. Ecco un ritratto del Pertusio uomo e politico, che tanti ricordi positivi ha lasciato ai genovesi e che troppo spesso viene dimenticato dalla sua città.

In un lontano mese di febbraio del 1956, il sindaco di Genova, Vittorio Pertusio, concluse con alcune memorabili parole un suo intervento nell’aula di Palazzo Tursi, un intervento dedicato a illustrare quanto quella giunta comunale democratico cristiana avesse fatto per il rilancio e la ricostruzione di una città, la Genova dell'immediato dopoguerra, che letteralmente in ginocchio era uscita dal secondo conflitto mondiate.
Quelle parole, rivolte al suo principale oppositore, Gelasio Adamoli, capogruppo di quel Partito Comunista, che Genova aveva già governato all’indomani della Liberazione, sono emblematiche per mettere a fuoco decisione e nobiltà di un uomo di governo. Decisione nel rivendicare, a viso aperto, quanto avevano saputo realizzare lui e gli uomini della sua giunta in quei cinque anni di mandato amministrativo; nobiltà nel non accettare compromessi di sorta con un partito, quello comunista, che, entro brevissimo volgere di tempo, avrebbe mostrato, nella repressione di Budapest, che cosa intendesse davvero per democrazia e libertà.
«Infine, Lei - concluse Pertusio, rivolgendosi ad Adamoli - ha detto: lotteremo per riportare a Tursi il popolo lavoratore. Qui bisogna distinguere nettamente: il popolo c’è già a Tursi, perché tutti sono rappresentanti del popolo: il popolo “lavoratore” potrà essere anche più largamente rappresentato. Non ci sarà nessuno più di me compiaciuto di vedere i lavoratori o direttamente o indirettamente rappresentati a Tursi; però noi lotteremo con tutta lealtà, ma le assicuro anche con tutte le nostre forze, perché attraverso l’azione democratica il popolo lavoratore non sia rappresentato né da voi né da chi sta con voi».
Sotto quelle parole, il piccolo volume che dopo lunghe ed impervie fatiche sono riuscito a consultare, porta, tra parentesi, la didascalia: applausi.
Ed è una didascalia che si perde nel tempo e nello spazio. Da allora, quegli applausi sono risuonati sempre più lontani, sino a perdersi nel fragore di altri e meno nobili rumori. Persino il libricino da cui abbiamo tratto questa citazione, «Cinque anni di governo democratico a Tursi», si è reso quasi irreperibile, quasi a simboleggiare come - per usare l’immagine che Omero mette sulle labbra di Glauco e Diomede nel loro dialogo sulle rive dello Scamandro - gli uomini siano come le foglie in certi giorni dorati d’autunno.
Eppure, Vittorio Pertusio non è uomo di cui lasciar rotolar via il ricordo sotto le folate del vento aquilonare. La sua memoria dovrebbe rimanere una sorta di stella fissa nella cultura di questa città, così poco abituata a contemplare il suo cielo politico punteggiato dagli astri della sera. Nato a Genova, il 25 luglio 1904, il futuro sindaco divenne avvocato di grido già prima della caduta del fascismo, di cui comunque non condivise mai gli ideali.
Cattolico di formazione sturziana, partecipò alla lotta di Liberazione tra quelle formazioni «bianche» a cui la concezione egemonica e togliattiana del potere doveva guardare come alla celebre pietrolina da cui liberare le proprie scarpe. Ciò non toglie che, negli anni della prima legislatura repubblicana, Pertusio, eletto nelle fila della Dc genovese, venisse chiamato ad incarichi di grande responsabilità.
Vicepresidente, nel 1950, della commissione speciale per l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sulla stampa, il deputato genovese forniva il proprio contributo anche in altri settori, come quello dei lavori pubblici, della cooperazione Italia - Stati Uniti, della cassa per il Mezzogiorno. Finalmente, nel sesto governo De Gasperi, veniva chiamato a ricoprire la carica di sottosegretario al lavoro e alla previdenza sociale.
Come ci ha detto Enrico Ghio, parlamentare democristiano di lungo corso e compagno di partito (anche se su posizioni diverse) dell’ex sindaco di Genova, a quei tempi, in cui l’autorità ed il prestigio dello stato era preminente rispetto a quello delle amministrazioni locali, nessuno avrebbe mai barattato Montecitorio per Palazzo Tursi. Nessuno, naturalmente, tranne Vittorio Pertusio.
L’avvocato genovese, invece, non ebbe esitazioni. Vincitore con la Dc delle elezioni amministrative del 1951, il nuovo sindaco si mise immediatamente al lavoro. Ed il lavoro somigliava assai a quella mitica fatica di Sisifo, che, una volta portata a termine, pretende di essere cominciata di nuovo.
Quella che il fascismo aveva chiamato la Dominante, la Genova portuale e commerciale, la città delle industrie metallurgiche e navali, sulla quale si allungavamo le ombre ardite di avveniristici grattacieli, era stata ridimensionata e umiliata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Occorrevano nuovi investimenti, piani regolatori a largo raggio, grandi opere, bilanci ricondotti in pareggio, per rilanciarla a livello internazionale.
È quanto Vittorio Pertusio rivendicava nel libretto di cui abbiamo fatto cenno ad inizio di articolo. Un libretto che raccoglie i cinque anni di una amministrazione, che i socialcomunisti di Gelasio Adamoli avevano definito «senza programma» e che invece segnò proprio dal punto di vista programmatico una svolta ed un modello di efficienza e correttezza.
Intanto, il pareggio. Lascia stupiti leggere al giorno d’oggi, quando certo non si lesina con il denaro pubblico, espressioni circa «gli alberi potati che sono diventati sei mila quintali di legna a disposizione del riscaldamento comunale». Una politica della lesina, dunque, attenta ad economizzare senza mai incidere su quella parte della cittadinanza più debole, che necessitava di case, di scuole, di una efficiente assistenza sanitaria.
Accusato dagli oppositori di «feticizzare» il pareggio del bilancio, Pertusio non si scompose ma tirò dritto. Non sapeva, non poteva sapere a quel tempo in quali condizioni di «terra bruciata» i suoi successori a Tursi avrebbero ridotto la nostra città qualche anno più tardi, quando furono l’ideologia e la cultura ridotta ad «effimero» a dettare sul libro mastro del Comune entrate ed uscite.
Ma se vi fu un settore dove davvero emerse la lungimiranza amministrativa del sindaco democristiano fu quello delle grandi opere. Come mi confermava ancora Enrico Ghio, si deve a Pertusio il nuovo volto di Genova, uscita dalla guerra e rilanciata a livello nazionale ed internazionale sull’onda del miracolo economico degli anni Sessanta. Opere come pedemontana, sopraelevata, aeroporto, acquedotto del Brugneto, sistemazione di Piccapietra, allestimento dei giardini di Foce, Acquasola e delegazioni sono realizzazioni da iscriversi nell'albo d'oro di questo politico di poche parole ma di molti fatti.
Che comunque di parole come di frecce Vittorio Pertusio, facondo e acclamato avvocato del foro di Genova, ne possedesse una fornita faretra, ne sono dimostrazione alcune battute pungenti, che, nell’infuriare della polemica politica, sapeva scagliare contro certe uscite degli incauti oppositori. Come quando, per esempio, gli venne rimproverato di trascurare a tal punto la viabilità cittadina da costringere la zia di un giornalista - probabilmente de L’Unità - a dover viaggiare per le strade di «Genova 1956» addirittura in trattore! Se questo è vero, rispose fulmineo Pertusio, immaginiamo allora con quale mezzo questa degnissima signora avrebbe dovuto compiere i suoi spostamenti cinque anni prima, all’inizio del suo periodo di amministrazione comunale. Chissà, magari in elicottero?
Certo, sul giudizio complessivo degli anni di governo a Palazzo Tursi di Vittorio Pertusio grava quella sua apertura a sinistra al Partito Socialista dei Nenni e De Martino: apertura che il politico democratico cristiano sostenne e portò avanti, nonostante l’opposizione risoluta di non pochi esponenti del suo stesso partito. «Passammo notti intere, Lucifredi ed io, a discutere e litigare - mi raccontava Enrico Ghio - ma non ci fu verso di convincerlo del contrario».
Ogni evento deve comunque essere necessariamente storicizzato, collocato cioè nella temperie sociale e culturale in cui si svolse. E quello era il clima dei primi anni Sessanta - gli anni del Concilio, della guerra d’Algeria, dei portuali in piazza De Ferrari all’attacco delle camionette dei celerini - gli anni, insomma, in cui per tutta Italia si coglieva come una sorta di segno dei tempi (per usare un’espressione che allora tanto andava di moda tra i padri conciliari e nell’ambiente cattolico) il bisogno di «andare verso il popolo», di introdurre nella politica quote più ampie di socialità. E si ritenne che, per realizzare questo obiettivo, bastasse aprire ai socialisti riformisti le porte della «camera dei bottoni».
Nonostante la disperata opposizione dei più lungimiranti uomini di pensiero del tempo, come il Cardinale Siri, che rischiò di compromettere seriamente la propria salute nel tentativo di arginare la marea montante, la cosa andò in porto. Con la conseguenza di fare del partito socialista il cavallo da introdurre nella cittadella assediata.


Se Vittorio Pertusio non si sottrasse a quel miraggio collettivo, il ricordo che di sé egli ha affidato alla storia rimane comunque del tutto cristallino. Il ricordo di un sindaco, che, ogni mattina, per non distrarre a scopi personali neppure le più piccole disponibilità economiche del Comune che amministrava, si recava a Tursi a piedi. Come un travet qualunque.

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