Sindrome "balena bianca": peones Pdl pronti a fuggire

Il Popolo della libertà come la Dc prima del crollo: afflitto da mezze calzette già con la valigia in mano, ma disposte al dietrofront se il Cav resta in sella

La balena bianca è uno spettro. Nel Pdl qualcuno ne comincia a parlare come uno scenario da evitare, quel corpo grande e molle spiaggiato e spolpato in pochi mesi. Una carcassa da cui tutti quanti si allontanavano disgustati giurando che non avevano mai avuto a che fare con quel gigante in putrefazione. Eppure per quasi cinquant’anni quel pachiderma aveva dispensato favori e pensioni e, bene o male, costruito una democrazia negli anni della guerra fredda. La cosa più amara era che i primi a ripudiare lo scudocrociato erano stati quelli che più avevano beneficiato di quel sistema. Tanto che gli altri, liberali e radicali, che con il partito di Dio non erano mai stati in grandi affari un po’ provavano pietà per quel grande cetaceo ripudiato da tutti. Era il 1992. La fine della prima repubblica.
Quello che sta accadendo oggi nel Pdl riflette la stessa atmosfera. C’è una sindrome da accerchiamento e la paura che il destino possa ripetersi. Il Popolo della Libertà come la Democrazia Cristiana. Nel ventre del partito stanno tutti con gli occhi aperti a scrutare l’orizzonte, annusano l’aria per capire dove tira il vento, con le valigie pronte per questo o quel governo tecnico, ma pronti a tornare a casa se il Cavaliere azzecca una mossa. C’è una banda di ignavi, di mezze calzette, di peones imbarbariti dalla nullafacenza, di ambiziosi che venderebbero la madre per una poltrona da sottosegretario, di valvassori e valvassini che sperano di contrattare i loro quattro voti locali con un nuovo signore. Tutti questi, e sono un numero indefinito, aspettano gli eventi. Ma come nel ’92 il primo colpo è arrivato dall’altra corrente di potere. Quella dei finiani non è una spallata alta e nobile, ma una scommessa sulla morte politica (con infamia) di Berlusconi. Loro sono i teorici del «si salvi chi può». La scelta ricorda quella dell’ala sinistra della Dc, che abbandonò la barca che affondava e si schierò su posizioni neo giustizialiste e fu risparmiata dalle inchieste. Tangentopoli non affondò il colpo. I De Mita, i Martinazzoli, i Prodi, le Rosy Bindi si sfilarono e ricostruirono in fretta il loro passato. Tanto che durante il processo Enimont - come ricorda il blog La Torre Normanna - «senza vergogna De Mita negò di conoscere Citaristi, il quale rispose con un sorriso di amara pietà per l’ex amico».
La storia, però, non ama ripetersi in fotocopia. Questa non è Tangentopoli. Il Pdl non è la Dc. Non ha la solidità della balena bianca. Non ha la sua pesantezza. E questa debolezza, paradossalmente, lo sta tenendo in piedi. Non crolla, ma resiste elastico ai colpi extrapolitici che arrivano da ogni parte. È una situazione strana. Tutti i calcoli razionali vengono smentiti da un guizzo a sorpresa. Il Cavaliere appare accerchiato, ma i suoi «cacciatori» non hanno la forza e il coraggio di abbatterlo. Fini ricorda quei generali che aspettano sempre di avere tutte le condizioni favorevoli per lanciare l’offensiva finale. Il risultato è che si prepara all’ultima battaglia, lancia proclami, raccoglie truppe, ma trova sempre una scusa per rimandare a domani. Fini ricorda il generale nordista McClellan durante la guerra di secessione americana. Richmond era all’orizzonte, ma lui aspettava che la congiunzione astrale e strategica riducesse a zero le probabilità di sconfitta. Tanto che Lincoln lo fece fuori perché era stanco di sentirsi ripetere: tra un mese saremo più forti.
La Dc nel ’92 si schiantò contro il muro di Tangentopoli. Ma allora i magistrati erano considerati i salvatori della patria. Si muovevano in odore di santità. Non venivano ancora percepiti come un partito. La verità è che l’ideologia dell’antiberlusconismo ha sfibrato i suoi interpreti. Li ha indeboliti. Non li ha resi credibili alla maggioranza degli italiani. Questo è un governo sotto assedio. A un osservatore lontano appare debole e sotto scacco. I numeri non sono più la sua forza. Eppure non cade. Il sospetto è che non cada perché non c’è una vera alternativa. La Confindustria sogna un governo delle parti sociali, ma neppure Tremonti si fida di questa soluzione che puzza di oligarchia.

Il Pd si accuccia appena sente la parola voto. La Lega resiste. Casini tratta. Fini tentenna e il Parlamento pensa a sopravvivere. Il governo regge e appare comunque più forte del partito di maggioranza. E il Pdl? Legge i tarocchi.

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