Si può - si è chiesto l’altro giorno sul Corriere della sera Francesco Piccolo - amare da sinistra un film reazionario come The Artist? Un film muto, su un divo del cinema che non vuole il sonoro, rifiuta il progresso, si condanna al fallimento professionale, e però alla fine trova l’amore di una donna? E più in generale, se si è di sinistra, ovvero si è chiamati a «spingere il mondo in avanti», il cosiddetto «ceto medio riflessivo» che la rappresenta, «nel presente che cosa ci sta a fare»?
La tesi di Piccolo ha una logica ideologica, non fosse che, applicandola, gran parte dei capolavori artistici del Novecento dovrebbero provocare disgusto in quel ceto ed essere additati alla pubblica esecrazione. Per fare solo qualche esempio, La Recherche di Proust, esegesi e cristallizzazione del mondo perduto, difficilmente «spinge il mondo in avanti». È progressista l’Anna Karenina di Tolstoj, il solipismo dell’Ulisse di Joyce, e come la mettiamo con i protagonisti di Scott Fitzgerald «barche controcorrente risospinte senza posa verso il passato»?
Per tutto il Novecento, la critica marxista, non sapendo dove mettere il valore in sé di un’opera d’arte, apparecchiò un tavolo di carte truccate grazie al quale se il contenuto o l’autore erano reazionari, il risultato era però rivoluzionario: da Balzac a Hemingway, passando per Thomas Mann e Kafka, su quel tavolo finiva la società borghese, i suoi fallimenti, gli «eroi stanchi» che la rappresentavano, i «valori», cioè i disvalori, di cui erano portatori. L’assunto finale era che la letteratura del futuro di quella decadenza avrebbe fatto terra bruciata. Si sa come è andata a finire.
Francesco Piccolo è romanziere, sceneggiatore, intellettuale di qualche rilievo e non si capisce perché si sia messo a cavalcare questo cavallo di ritorno che, esso sì, non porta da nessuna parte. Vuole davvero un realismo socialista applicato alla post-modernità?
Proviamo allora a prenderla in un altro modo e diciamo che a Piccolo ciò che in realtà non piace è la sinistra reazionaria, il paradosso di un pensiero che si suppone nuovo, ma che passa il suo tempo a decantare i buoni profumi culinari di una volta, le piccole librerie di quartiere, l’utilizzo della bicicletta, la televisione in bianco e nero... È questo il tradimento, sono queste le colpe: la reazione mina il progresso dall’interno, lo seduce e nello stesso tempo lo corrompe.
Vista in quest’ottica, l’analisi di Piccolo ha le sue ragioni, anche se paradossalmente sono reazionarie. Anche lui difende cioè un qualcosa che non c’è più, ammesso che sia mai esistito, l’ideale, come scrive, di «un ceto medio riflessivo sul quale abbiamo fatto affidamento per la ricostruzione di un Paese civile e innovato». Chi è che lo incarnava? Il doppiopetto e la passione per i classici latini di Togliatti? L’etica del sacrificio di Berlinguer? Le figurine Panini di Veltroni? Di che cosa stiamo parlando? Un paio di mesi fa è finita all’asta la collezione d’arte e di mobili di Natalino Sapegno, dantista illustre, intellettuale di sinistra esemplare, grande firmatario di appelli contro la reazione in agguato e il fascismo alle porte... Aveva una casa in stile Impero, il trionfo dei bronzi e dei marmi, delle rilegature in cuoio, dei broccati. Anche qui, di che cosa stiamo parlando?
Piccolo se la prende con chi critica Internet, chi dice che gli studenti sono «ignoranti», chi definisce «barbari» i ragazzi d’oggi, ma dà così la sensazione di preferire comunque ciò che è, a ciò che è stato. È una sorta di hegelismo all’amatriciana, perché sarà anche vero che ciò che è reale è razionale, ma la constatazione non implica un criterio di superiorità. Il progresso non è un totem da adorare, criticarlo, correggerlo e/o rifiutarlo non è un delitto, tantomeno è un esercizio reazionario.
Piccolo è un progressista, e avendo superato da tempo la maggiore età, questi sono affari suoi. È però un reazionario nell’inseguire una dicotomia destra-sinistra che sempre più fa acqua da tutte le parti e che francamente lascia il tempo che trova. Se fosse coerente con sé stesso, e mettesse il moralismo da parte, dovrebbe dirsi che Berlusconi ha modernizzato e innovato il Paese molto di più di quella sedicente sinistra «rivoluzionaria», ovvero moderna, di cui lamenta la scomparsa. Io non credo che la tv commerciale di oggi sia meglio di quella di Bernabei degli anni Sessanta, ma io sono reazionario e non guardo la televisione. Piccolo invece ci lavora, e anche qui, di che cosa stiamo parlando?
Berlusconi, già. L’agonia della sinistra nasce da lui. Gli ha dato quello che molti dei suoi intellettuali di punta chiedevano: lo stracult dei film scorreggioni di Pierino, la «gggente» delle dirette tv, il pubblico che fa i programmi, la democrazia plebiscitaria... Glielo ha dato mentre intanto a sinistra tutta l’impalcatura ideologica crollava sulla testa di chi si ostinava a credere che fosse ancora solida.
È memorabile l’affermazione di Luigi Natta all’indomani della caduta del Muro di Berlino: «Ha vinto Hitler». Era passato mezzo secolo e era rimasto a cinquant’anni prima...
La sinistra reazionaria casomai è questa qui, non quella che, se è il caso, s’interroga legittimamente su dove il progresso porti e quanto e se il progresso sia in sé un valore. È la sinistra che si è inventato il Caimano (quello cinematografico aveva proprio Francesco Piccolo come sceneggiatore...), la democrazia in pericolo, la dittatura catodica, il nuovo regime liberticida, il popolo italiano rimbecillito e corrotto, e poi si è ritrovata di colpo senza il «nemico principale», dimessosi oltretutto sua sponte e senza non dico un tumulto, ma nemmeno un sussulto dei suoi tremendi pretoriani, e che ora si vede costretta a ingoiare un «governo tecnico» che è un insulto per chiunque abbia a cuore la democrazia parlamentare, i diritti-doveri del popolo sovrano eccetera, eccetera.
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