Ruggero Guarini
Volete capire qual è il «riformismo» che la nostra sinistra ha oggi in testa? Allora lasciate perdere il suo dotto cicalecciare sul concetto di «riformismo», che i suoi più apprezzati maestrini, per agevolare la nascita di quella nuova creatura politica che essi chiamano «Partito Democratico», si stanno industriando di ridefinire. E considerate piuttosto la sua pratica «riformistica», quale si va esprimendo nelle sue più recenti battaglie sul fronte del Progresso.
Su questo fronte la nostra sinistra ci ha appena fatto sapere di non volere la Tav. E nemmeno il ponte di Messina. E nemmeno le centrali nucleari. Che la sua vocazione riformista le impone di sabotare qualsiasi grande opera che riducendo qualche distanza geografica, energetica, economica, sociale o di altro tipo, potrebbe trainare lo sviluppo, attirare capitali, rimodellare le istituzioni e riformare i costumi. Che insomma il suo riformismo, obbligandola a dire sempre «no» a qualsiasi progetto che potrebbe giovare al Paese, è in effetti un «antiriformismo». A indurla a chiamare «riformismo» il suo contrario è tuttavia il suo infallibile fiuto. Che in ognuna di quelle opere le fa giustamente riconoscere la prova inoppugnabile del fatto che il solo cervello riformista del nostro tempo non è affatto il suo bensì quello del blocco Scienza-Tecnica-Capitale.
Devessere per questo che tutti gli sproloqui dei maestrini del nascente Partito Democratico sulla necessità di rilanciare il «riformismo» non vertono sulla cosa ma sulle parole che ne definiscono il concetto. Fra le quali spiccano, per il momento, queste tre originali formulette: 1) «Riformismo: impostazione politica volta a modificare lo stato esistente delle cose con metodi legali»; 2) «Il riformismo non è solo proposta, non è solo articolazione di commi tecnicamente corretti, ma è progetto di insieme, è tratto finalistico di identità comune, è visione del futuro in cui proposte e commi tecnicamente corretti trovano il loro senso e la loro ragione»; 3) «Il riformismo non è la destra della sinistra».
Sono definizioni che fanno pensare. Magari al genio di Giuliano Amato, giacché le tre citate, finissime definizioni sono appunto sue. Comunque non certo a quelle volgarissime riforme che il Capitalismo, con lausilio di quelle sue ancelle reazionarie, la Scienza e la Tecnica, si permette abitualmente di realizzare senza mai consultare i riformisti. Fra le quali figura, a quanto sembra, la recente abolizione dellantica classe operaia. Quella che bivaccava allegramente nelle belle fabbricone di una volta. Ossia quelle poetiche armate di metallurgici e siderurgici che potevano esprimere liberamente il proprio talento davanti agli altoforni e alle catene di montaggio. E che i funesti effetti del progresso tecnologico, trasformandoli in algidi robot inseriti in un sistema di produzione automatizzato, hanno praticamente sottratto alle cure della sinistra riformatrice.
La quale, tuttavia, se non è ancora riuscita a inventare, come promette dal giorno in cui è nata, nessun modo di organizzare decentemente il tempo lavorativo delle masse, continuando a promuovere scioperi, marce, assemblee, cortei, fiaccolate, notti bianche e girotondi, sta dimostrando che la sua vera specialità è linvenzione di modi sempre nuovi di organizzare indecentemente il loro tempo libero.
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