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Sinistra, vent’anni di assalti alle tv del Cavaliere

Non sono pentito di aver detto nel ’96 che Mediaset è una risorsa del Paese. Quindi non va perseguitata

Massimiliano Lussana

da Roma

È un po’ come se fosse un riflesso condizionato. Quando non sanno cosa fare o che pesci pigliare, a sinistra, si inventano un esproprio delle televisioni di Berlusconi. Certo, le tecniche si raffinano e si affinano, gli strumenti sono diversi, persino i protagonisti del tentativo cambiano di volta in volta, con alcune simpatiche presenze variabili indipendenti.
Ma la morale è sempre quella: spegnere le televisioni di Berlusconi. Con il Cavaliere come ossessione fissa. Nella prima Repubblica, addirittura, uno dei tanti governi Andreotti andò in pezzi quando tutti i cinque ministri della sinistra Dc si dimisero in chiave antiberlusconiana su questioni legate alla legge di riassetto televisivo.
Tutto cominciò prima ancora del Berlusconi politico e prima ancora dei nemici politici del Berlusconi imprenditore. Per la precisione, negli anni Ottanta, quando una serie di pretori iniziò ad ostacolare di volta in volta questa o quell’altra rete collegata al network di Berlusconi. Fino all’offensiva finale: il 16 ottobre 1984, tre pretori di Torino, Roma e Pescara inviarono squadre di agenti di Polizia e Finanza a sequestrare nelle sedi dei network berlusconiani e delle tivù collegate (allora, non si poteva trasmettere in contemporanea, e Berlusconi escogitò il metodo delle trasmissioni uguali per tutta Italia registrate su cassette e poi girate alle varie reti locali) le cassette incriminate. Fu il caos. Gli italiani si resero conto che l’operazione non faceva altro che limitare il loro diritto di scegliersi i programmi e «la rivolta dei Puffi» - così chiamata perché al centro delle proteste più accese c’erano i bambini fan degli strani ometti blu, oscurati anch’essi - costrinse il governo Craxi ad emettere un decreto che riaccese le televisioni.
Poi vennero lunghi anni di pax televisiva, dovuta sostanzialmente a due aspetti: da un lato, l’ecumenismo delle reti berlusconiane che davano spazio a tutte le parti politiche senza faziosità, dall’altro il fatto che all’allora Partito comunista italiano venne appaltata la terza rete dove un genio della comunicazione come Angelo Guglielmi mise in piedi un capolavoro, nel senso gramsciano del termine.
Ma la pace si trasformò in guerra appena Silvio Berlusconi iniziò a prepararsi all’«Italia è il Paese che amo» e alla discesa in campo. Massimo D’Alema, come spesso gli accade, fu il primo a far andare la lingua spiegando che lui sognava «Berlusconi a chiedere l’elemosina agli angoli delle strade». Ma, come altrettanto spesso gli accade, la cosa si rivelò una boutade e D’Alema rimase sempre uno dei più intelligenti e ragionevoli della sua parte nell’affrontare questi temi.
Intanto, però, sempre nel Pds c’era chi iniziava a sognare l’esproprio. In particolare, i dioscuri dell’operazione erano Vincenzo Vita, poi sottosegretario alle Comunicazioni nei governi di centrosinistra, e Beppe Giulietti, leader del sindacato giornalisti Rai e poi responsabile comunicazione diessino. Nell’autunno del 1993, i due iniziarono - con l’aiuto decisivo dell’apparato del partito - a raccogliere firme per i referendum su concessionarie pubblicitarie e concessioni televisive, il cui obiettivo nemmeno troppo segreto era quello di lasciare una sola rete a Berlusconi. Walter Veltroni, poi, ebbe un colpo di genio mediatico dei suoi e ci mise in mezzo anche un terzo referendum, quello contro le interruzioni pubblicitarie nei film, il cui immaginifico slogan era: «Non si interrompe un’emozione».
Nel 1994 non ci fu il referendum perché si andò alle elezioni anticipate, ma il tentativo di trappola finale - quella che doveva essere una V2, l’arma decisiva contro Berlusconi - scattò l’anno dopo. Andò così: con un blitz della presidente della Camera leghista Irene Pivetti, venne istituita una commissione di riforma del sistema radiotelevisivo che fu l’anticipo del ribaltone. E, intanto, dopo la caduta del primo governo Berlusconi, scattò la tenaglia. Da un lato, il Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro prometteva elezioni anticipate al leader azzurro; dall’altro, non sciolse le Camere. E quindi si andò alle urne per i tre referendum televisivi che avrebbero costretto alla chiusura di Mediaset e azzoppato definitivamente Berlusconi. Ma la campagna del comitato per il no fu brillantissima e, grazie soprattutto alle ottime intuizioni del portavoce Giorgio Stracquadanio e al fatto che saggiamente Berlusconi si tenne fuori dalla campagna referendaria, andarono a votare il 66 per cento degli italiani (ultimo quorum raggiunto) e il 57 per cento disse «no». Interrompendo il film veltronian-scalfarian-diessino.
Poi, i Ds capirono che non era intelligentissimo continuare così, tanto che D’Alema vinse le elezioni anche andando a Mediaset e dichiarando: «Questo è un patrimonio del Paese. Non lo toccheremo». Da allora, si va avanti, fra leggi sul conflitto di interessi votate da tutti e poi sconfessate dall’Ulivo per interesse al conflitto, e tentativi di dichiarare l’ineleggibilità di chi ha concessioni televisive. Leggendari gli emendamenti del centrosinistra del 9 novembre 2000, che prevedevano una multa pari al 50 per cento del valore delle sue imprese se Berlusconi fosse rimasto in politica e la revoca delle concessioni stesse.
Il resto è storia recentissima.

Fausto Bertinotti che apre la legislatura con dichiarazioni sulla necessità di colpire Mediaset e la legge Gentiloni. Che parte dalla raccolta, anziché dalle concessioni. Lo strumento è più raffinato, ma l’obiettivo è sempre lo stesso.

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