Politica

Sionismo in crisi

Nessuna delle grandi crisi mediorientali di questi ultimi anni è stata risolta. Non vi è zona del mondo in cui vi sia una più alta concentrazione di guerre, conflitti civili, terrorismo, crisi di regime, transizioni politico-costituzionali...

Nessuna delle grandi crisi mediorientali di questi ultimi anni è stata risolta. Non vi è zona del mondo in cui vi sia una più alta concentrazione di guerre, conflitti civili, terrorismo, crisi di regime, transizioni politico-costituzionali. E non vi è paese della regione in cui non vi sia, dietro la crisi internazionale in cui ciascuno di essi si dibatte, una crisi dello Stato.
Nella corsia dei malati mediorientali vi è anche Israele. Per vent’anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, Israele fu il beniamino di una grande parte della società europea. Piaceva ai socialisti, attratti dall’entusiasmo con cui gli ebrei dell’Europa orientale avevano saputo realizzare nelle terre brulle della Palestina il socialismo slavo di Aleksandr Herzen e il programma proletario del Bund. Piaceva ai liberali e ai democratici perché confermava a posteriori la validità dei movimenti liberal-nazionali dell'Europa nel secolo precedente. Piaceva all’Europa protestante... piaceva, nonostante le riserve della Santa Sede, persino ai cattolici.
Sapevamo che Israele avrebbe avuto i caratteri di uno Stato diverso, in controtendenza rispetto all’evoluzione delle democrazie occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale. \ Israele creava uno Stato fondato sull’appartenenza comunitaria e sulla tradizione religiosa. Ma sapevamo che questa anomalia era il risultato della storia del Novecento e che ne eravamo per molti aspetti responsabili. \
La guerra del 1967 invece segnò l’inizio di una fase in cui le ragioni dei palestinesi sarebbero state ascoltate con crescente attenzione; Israele divenne oggetto di critiche sempre più esplicite da parte di larghi settori dell’opinione pubblica occidentale. \ Il disagio cominciò a diffondersi tra persone che avrebbero fatto sempre più fatica negli anni seguenti a conciliare questi sentimenti con l'ideologia del «Grande Israele», l’invasione del Libano, i massacri di Sabra e Shatila, l'installazione dei coloni nei territori occupati. \
Le condizioni di salute dello Stato israeliano sono state poi ulteriormente aggravate dalla somma di due fattori: la politica dei territori occupati e una scienza, la demografia, che gli uomini non sono mai riusciti a governare. Dietro la continua occupazione dei territori conquistati nel 1967 vi era la convinzione che Israele dovesse controllare, per meglio garantire la propria sicurezza, un territorio più grande di quello che gli era stato assegnato dal conflitto del 1948. La questione sarebbe stata di difficile soluzione per un qualsiasi Stato europeo in una regione post coloniale. Ma il problema è diventato ancora più complicato quando le due demografie, quella ebraica e quella araba, hanno cominciato a divergere. I 300.000 arabi rimasti in Israele alla fine della guerra del 1948 sono diventati un milione e mezzo. \ È questa la ragione per cui Sharon aveva cambiato strategia e deciso di dare ai palestinesi una casa. Peccato che la casa fosse priva del tetto, vale a dire di spazio aereo, che si affacciasse sul mare ma non potesse disporre delle proprie coste e che le sue chiavi dovessero restare permanentemente nelle mani di Israele.
La diaspora, nel frattempo, ha adottato un atteggiamento contraddittorio. \ Ha delegato la propria rappresentanza a una nomenklatura che considera antisemita ogni critica indirizzata alla politica israeliana e pretende la redazione di una nuova storia europea del Novecento, scritta alla luce di un solo criterio: l’atteggiamento verso gli ebrei dei governi, degli uomini politici, degli intellettuali. Soggetti a queste pressioni, i governi europei hanno proclamato «giorni della memoria», dedicati alla commemorazione del genocidio ebraico, hanno costruito memoriali, hanno aperto musei della Shoah e hanno approvato leggi che puniscono con il carcere il diniego del genocidio. \
Il maggior bersaglio di questa nomenklatura, da qualche anno, è la chiesa di Pio XII. Per alcune settimane, agli inizi del 2006, il Corriere della Sera ha aperto le sue pagine culturali alla discussione su un documento apparentemente inviato da Pio XII nel 1946 a monsignor Angelo Roncalli, nunzio a Parigi. Un anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, secondo il testo di questo promemoria redatto in francese, il papa avrebbe dato istruzioni al futuro Giovanni XXIII di evitare la restituzione alle famiglie dei bambini ebrei custoditi da istituzioni religiose e battezzati durante il conflitto. Le reazioni furono immediate e severe. Qualcuno chiese al Vaticano di interrompere il processo di beatificazione di Pio XII. \ Fu accertato più tardi che il documento non proveniva dalla Santa Sede e che la segreteria di Stato aveva semplicemente suggerito alla nunziatura di evitare la restituzione dei bambini battezzati a istituzioni ebraiche che non potessero accampare su di loro alcun diritto.
Da allora abbiamo assistito ad altri dibattiti fra cui quello recente sull'atto d'accusa, in forma di didascalia, che accompagna la fotografia di Pio XII in una sala di Yad Vashem, la grande istituzione di Gerusalemme creata nel 1953 in memoria dell'Olocausto. Chi ha sollevato il problema dell'influenza esercitata da queste nomenklature è stato spesso bersaglio di critiche acrimoniose. \
Fra questo revisionismo ebraico e la politica unilaterale perseguita da Israele, con una breve parentesi, dall'assassinio di Rabin in poi, esiste probabilmente una relazione. \ Quanto più Israele perseguiva una politica unilaterale e chiudeva la porta a una soluzione equilibrata della questione palestinese, tanto più le nomenklature ritenevano necessario correre in suo aiuto. I difensori di Israele si sono moltiplicati per evitare la ripetizione del passato.

Ma accanto alla ripetizione del passato esiste un altro rischio, non meno grave: quello a cui si espongono coloro che applicano le lezioni del passato a situazioni completamente diverse.
Sergio Romano

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