Il sisma ha ucciso più caschi blu che le bombe a Bagdad e Algeri

Rasa al suolo la caserma delle forze Onu. E senza soldati si teme l’anarchia Blocchi stradali con i cadaveri per protestare contro il ritardo negli aiuti

Il sisma ha ucciso più caschi blu che le bombe a Bagdad e Algeri

Il destino di Haiti per ora è scritto nei suoi alberghi. L’Oloffson è in piedi. Il Christopher è un ammasso di ruderi e polvere. Un pessimo segnale. L’Oloffson, ribattezzato Trianon da Graham Greene, era il palcoscenico de «I Commedianti», il romanzo con cui lo scrittore denunciò il crudele e grottesco regime di Papa Doc Duvalier.
Il Christopher era fino a martedì la base di Minoustah la missione dell’Onu che grazie a 9.000 caschi blu a guida brasiliana riusciva a garantire un minimo di stabilità, tenere sotto controllo le bande armate e restituire qualche speranza alla popolazione civile. Ora è tutto da rifare. Da martedì notte Minoustah è una missione paralizzata, ferita a morte. Sotto le macerie del Christopher sono scomparsi, e quasi sicuramente morti, il 67enne tunisino Hedi Annabi, capo della missione dell’Onu, e il suo vice Luiz Carlos da Costa. Sotto le macerie delle altre fragili infrastrutture destinate ai caschi blu sono scomparsi 150 fra soldati e funzionari. E pochi s’illudono di ritrovarli vivi. L’Onu per ora ammette la morte di 22 funzionari e il Brasile quella di 14 soldati, ma al Palazzo di Vetro ci si prepara a fronteggiare la peggiore congiuntura della storia recente. Più tragica di quelle causata dalle bombe dei terroristi che a Bagdad nel 2003 uccisero il capo missione e 21 funzionari e ad Algeri nel 2007 distrussero due palazzi facendo strage di 40 dipendenti. Le conseguenze peggiori rischiano di rivelarsi quelle non ancora scritte. «La presenza delle truppe dell’Onu aveva creato le condizioni per mediare con i capi delle bande armate e a garantire la stabilità. Ora tutti incrociamo le dita», dice al Giornale Maria Teresa Gatti responsabile per l’America Latina di Avsi, l’unica organizzazione umanitaria presente nel cuore di Cité Soleil, l’impenetrabile gangsteropoli regno dei clan armati di Haiti. Il rischio vero è la paralisi di Minustah e il conseguente ritorno al passato. L’incubo è in parte già realtà. Da ieri, bande d’ergastolani e assassini fuggiti da un carcere semidistrutto s’aggirano per l’isola minacciando i sopravvissuti e facendo razzia tra le macerie del terremoto. E nella notte italiana arriva la notizia della rabbia esplosa fra la popolazione per il ritardo degli aiuti: blocchi stradali sono stati improvvisati con i cadaveri. Tra i ruderi di uno dei più grandi centri commerciali di Port-au-Prince, torme di sciacalli si fanno largo tra i cadaveri e i detriti per rubare sacchi di riso e televisori. I distributori abbandonati sono presi d’assalto dai predoni di benzina e kerosene. Polizia e caschi blu sono scomparsi. Alcuni sono impegnati a estrarre dalle macerie i loro familiari o i loro compagni, altri pattugliano le infrastrutture governative ancora in piedi per evitare razzie. I pochi che si vedono in giro ammettono di non aver ordini. «Non sappiamo assolutamente cosa fare, non siamo neppure in grado di dare una mano perché non abbiamo i mezzi per raggiungere le zone più colpite dal disastro», ammetteva ieri un soldato cileno. Da qui a immaginare lo spettro di una nuova Somalia poco ci passa. Senza la presenza dei Minustah o di un presidio armato in grado di garantire la sicurezza degli aiuti le bande dell’isola possono assalire i soccorritori, trafugare i carichi di cibo, rivenderseli a caro prezzo. Chi come Maria Teresa Gatti ha il polso della situazione ed è abituato a trattare con i vari capi banda locali azzarda ottimismo. «Negli ultimi anni la mediazione ha garantito un minimo di responsabilizzazione delle teste più calde, ma la vera fortuna è che sia sopravvissuto il presidente René Prevail, lui negli anni 90 era il primo ministro di Aristides ed ha contribuito moltissimo a neutralizzare o ridurre l’aggressività dei vecchi capibanda legati all’ex presidente».
Dalla prima linea dal cuore di Cité Soleil arrivano però notizie molto più allarmanti. Lì la stessa responsabile di Avsi Fiammetta Cappellini parla di «situazione molto tesa».

Il numero due della missione di peacekeeping Alain de Roy ha spedito truppe e poliziotti ancora in grado di muoversi a stringere un cordone di sicurezza di porto e aeroporto, i due nodi cruciali per i soccorsi. Un ruolo importante potrebbero giocarlo i 3.500 soldati mandati dall’amministrazione Obama a garantire la distribuzione di aiuti. Sperando non vada come in Somalia nel 1993.

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