Egregio dottore Granzotto, una guida delle trattorie esiste: «Osterie dItalia, sussidiario del mangiare bene allitaliana» Slow Food editore. Indica le più rinomate trattorie, osterie, vinerie dalla Valle dAosta alla Sardegna. Un viaggio - come precisa leditore - «attraverso 1.700 locali, osterie vecchie e nuove, trattorie, ristori agrituristici, enoteche che sono rimasti fedeli ai sapori autentici, testimoni di unItalia che non dimentica le sue radici». La guida in mio possesso è del 2003. Di tanto potrà rassicurare, attraverso il «nostro» Giornale, i signori Sonia e Massimilano Mari da Mantova (Il Giornale del 16 settembre, pag. 38). Ove mancassero nuove edizioni di tale guida, la prego di farmelo sapere, sarò felicissimo di inviarle in dono il mio volume.
Michele Vella (Nocera Inferiore - Sa)
La ringrazio per la premura, caro Vella. In verità sapevo della esistenza della guida da lei segnalata, ma sa com'è, dallo Slow Food io giro alla larga: troppa filosofia, troppissima sociologia del cibo propinata con la puzzetta sotto il naso. Per lo Slow Food mangiare non è mangiare, ma compiere un «percorso» estetico, intellettuale e ideologico, terzomondista e antimperialista, multietnico, multiradical, condiviso e, ti pareva, responsabile. Quelli dello Slow Food sono dei gagà, caro Vella. Gente che cade in estasi per un cicinin di «Bottarga di muggine delle donne Imraguen» (mai avrei immaginato che le donne, ancorché Imraguen, producessero bottarga. Di muggine) e per le lingue di pappagallo in genere. Gente che ti inventa lArca del Gusto o il Master of Food, che ha le sue «missions», che sostiene essere il piacere alimentare «riservato soltanto a élite facoltose» ignorando che le spuntature di maiale con le cime di rapa - roba di sommo, ma diciamo pure sublime piacere alimentare - se le può permettere anche chi non ha il conto in banca d'un Luca Cordero di Montezemolo. Mentre lo stesso non può dirsi dello slowfoodiano «Violino di Capra della Valchiavenna» o del «Lonzino di Fico», della «Rapa nera di Pardailhan» o del «Waranà nativo del Sateré Mawé».
Posso fidarmi dei suggerimenti gastronomici di tipi che la menano con la «cultura del cibo»? E per i quali masticare «patate andine della Quebrada de Humahuaca» è come aver letto la Critica della ragion pura di Immanuel Kant? Posso affidarmi ad una guida che a detta dei compilatori non è «un semplice indirizzario di buone soste», nossignore, ma inventario di «luoghi di una comunità, di un'identità condivisa»? Compilatori che «citando Wendell Berry, poeta contadino statunitense, intendono ribadire che oggi mangiare è un atto agricolo»? Vede, io son di quelli che appena sentono pronunciare il luogo comune «identità condivisa» perdono la trebisonda. Se poi dal cilindro dell'acchiappa citrulli viene estratto anche un «poeta contadino» e se per sovrappiù il «poeta contadino» se ne esce col fatto che mangiare è un «atto agricolo», se non metto mano alla pistola poco ci manca.
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