La "società dei diritti" non rispetta le persone

Non è un sogno di destra o di sinistra: è solo un incubo dove la norma schiaccia la vita

La "società dei diritti" non rispetta le persone

Elly Schlein sogna una civiltà dei diritti. Ma non è un sogno di sinistra, e nemmeno di destra. È solo un brutto sogno.

È di qualche giorno fa la storia di quella classe liceale della Classical School di Thallassee in Florida, in gita scolastica a Firenze, la cui preside, signora Hope Carrasquilla, è stata licenziata (in seguito alle proteste di alcuni genitori) per aver mostrato agli studenti opere a contenuto scabroso, anzi pornografico, come il David di Michelangelo. E questo benché lo studio della storia dell'arte sia obbligatorio alla Classical. Il licenziamento della signora Carrasquilla è stato motivato dall'esigenza di rispettare i diritti delle famiglie. Ecco, quindi, un caso di battaglia sui diritti non indirizzata verso i soliti temi (LGBTQ+, fine vita ecc.) ma in una direzione che, nell'andazzo generale, si potrebbe rubricare come «di destra»: la tutela delle famiglie.

Perché la civiltà dei diritti è per tutti, i diritti sono i diritti di tutti, di gay ed etero, delle famiglie arcobaleno e di quelle tradizionali, di destra e di sinistra. Tutto verrà tutelato, salvaguardato.

Questo è il brutto sogno che spero di non fare mai. Per due ragioni molto chiare.

La prima riguarda i casi in cui l'affermazione di un diritto comporta la negazione di un altro, spesso molto più importante.

È il caso della cosiddetta maternità surrogata, o utero in affitto. Lascio stare il fatto che di questo «diritto» si potrà avvalere solo chi avrà molto denaro (sono nove mesi di affitto, di cure, di eventuali disturbi e dolori, e forse anzi certamente anche di amore), e che perciò si tratta di un diritto acquisibile da chi lo può fare.

Ma non è questo che ci interessa. Ci interessa il fatto che in una pratica come questa l'umanità venga divisa in due: qualcuno (donne, per inciso) viene trattato non più come un fine ma come un mezzo. L'affermazione dell'essere umano inteso come fine (un concetto, questo, che molti vogliono estendere anche agli animali e alle piante) si interrompe quando c'è da soddisfare un desiderio inteso come «diritto».

Dalla fondazione della polis ai Dieci Comandamenti, la civiltà umana ha cominciato, lentamente, ad affrancarsi dalla barbarie. Ci sono stati secoli di schiavitù, questo è vero, ma lentamente, di secolo in secolo, di evento in evento, la contraddizione tra una pratica come questa e i nuovi principi della convivenza umana si è resa via via sempre più evidente. La schiavitù finì da sé, senza bisogno di editti, perché - a dispetto dei costumi - il nuovo patto sociale diceva a chiare lettere che tutti gli esserti umani sono uguali davanti a Dio, davanti alla Legge e davanti ai loro simili.

La pratica - che si vuol cambiare in diritto - della maternità surrogata costituisce un passo indietro rispetto a queste conquiste, e l'esperienza ci insegna che i passi indietro non vengono mai da soli.

La domanda è questa: che cos'è, oggi, un essere umano? In che modo questa domanda incide nelle decisioni dei politici, dei legislatori, dell'organizzazione e della tutela del lavoro, nel diritto internazionale eccetera? Basta vedere in che modo l'Europa tratta una guerra che ha già prodotto diverse centinaia di migliaia di morti per capire quando l'essere umano si trasformi, di giorno in giorno, in una pura astrazione, in un termine teorico, come nella prassi dei terroristi.

La seconda ragione, a proposito di terroristi, riguarda il tipo di società che qualcuno molto autorevole vuole a ogni costo, e verso la quale stiamo scivolando. In un suo libretto di qualche anno fa, la psicoanalista Julia Kristeva (C'è dell'altro, Vita e Pensiero, pagg. 160, euro 14.00) sottolineava il fil rouge che sussiste tra cristianesimo e psicoanalisi. La civiltà cristiana fonda la sua idea di «uomo» in un rapporto io-tu («Io sono nel Padre e il Padre è in me») che giunge fino al sacrificio sulla croce. La psicoanalisi, figlia (anche) di alcune grandi suggestioni romantiche, descrive l'uomo allo stesso modo, come un dialogo, un «io/tu», dove la presenza del padre è un dato incontrovertibile, che realizza il suo senso con la sua stessa uccisione.

L'alternativa a questo modello è una società senza paternità, senza necessità di parricidio, puramente normativa e legislativa. È il caso delle organizzazioni terroriste e affini - come dimostrano i casi odierni dell'Iran e dell'Afghanistan -, dove tutta la complessità della vita si muove secondo principi astratti e immutabili. Ma non solo.

È una soluzione possibile per tutti - noi e loro - perché è una soluzione facile. Pensiamoci un istante: che differenza c'è tra una ragazza che viene uccisa perché non indossa correttamente il velo e una preside che viene licenziata per aver mostrato il David di Michelangelo a una classe liceale? O un membro del c.d.a. di un ateneo che viene radiato in quanto considerato omofobo solo perché si trova in disaccordo col rettore gay? O la dedica di un'aula magna, cancellata perché la dedicataria, una grande scrittrice morta nel 1964, in alcuni suoi (meravigliosi) racconti adoperò la parola «negro»?

Togliete la parola «diritti» e metteteci la parola «Dio»: cambierà la polizia (di là i mitra, di qua - per ora - gli avvocati), ma la forma resterà la stessa.

Perciò abbasso la società dei diritti e viva la società della persona, alias umanesimo. Anche se lo sappiamo tutti, che l'umanesimo va ricostruito dalle fondamenta, che forse ci saranno cattedrali e università da abbattere prima di poterle rifare.

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