
Si spengono le luci colorate, le insegne rainbow dei pochi brand che ancora cavalcano la diversity come leva di marketing, i post sui diritti civili tornano a essere materia per attivisti e scompaiono i caroselli strappalike di chi partecipa al trend queer con lo stesso spirito con cui farebbe dieci ore di coda per un Labubu.
Giugno, da qualche anno, è diventato il mese perfetto per la rissa mediatica tra due Italie:
quella che lotta per i diritti e quella che lotta per il diritto di dire che “non si può più dire niente”.
Tra battaglie, provocazioni e neologismi che conviene conoscere se si vuole stare sui social e non finire in una shitstorm valoriale, merita un momento di attenzione lui (lei? Loro?) il queerbaiting.
Ora, per chi non vivesse su TikTok 24 ore al giorno: queerbaiting significa letteralmente “adescamento queer”. È una strategia, più o meno consapevole, in cui personaggi pubblici, brand o content creator strizzano l’occhio alla comunità LGBTQIA+, senza mai schierarsi davvero, né assumersi il rischio di sostenere veramente una causa o una battaglia.
È una specie di flirt ideologico, a uso e consumo di chi guarda.
Un modo per guadagnare visibilità, forse anche un posto sul carro del Pride, che in giro per il mondo sempre meno libero perde consensi ma qui tira ancora tanto tra la gente che conta: cantanti, intelletuali, influencer. Attirando così approvazione, followers ed engagement… al prezzo di un pomeriggio di baldoria in maschera, senza compromettere nulla di sé.
Fenomeno prevedibile? Certo.
Dannoso? Profondamente.
Viviamo tempi in cui ogni gesto è calcolato in base a quanti cuori rossi ti porta su Instagram e questa ricerca disperata di approvazione collettiva sta facendo più danni di una polemica su chi condurrà Sanremo.
Perché sui social, incredibile ma vero, non frega davvero a nessuno “con chi vai a letto” e nemmeno “quale bandiera metti nel bio”. Ma la coerenza è merce tanto rara quanto preziosa e la mancanza di autenticità è una puzza che si sente da un algoritmo e mezzo di distanza. Chi fa parte della comunità, chi ha dovuto lottare per essere se stesso, chi ogni giorno si espone e rischia, riconosce a colpo d’occhio chi cavalca l’onda solo quando fa comodo.
Ma il problema vero è un altro ma soprattutto il danno lo subisce chi guarda.
Chi è giovane. Chi si sta ancora cercando. Chi vorrebbe un esempio e trova solo ambiguità da copertina, slogan senz’anima, luci stroboscopiche puntate su chi gioca a travestirsi da simbolo.
È successo con Billie Eilish, travolta dalle polemiche per il video di Lost Cause. È successo con Harry Styles, celebrato per aver reso “queer-friendly” una femminilità estetica, ma senza mai definire – e forse nemmeno vivere – ciò che rappresentava.
Con chi qui da noi ha già colto il cambio di vento e ha smesso di creare smalti e limonare cantanti in tv per tornare a fare il maschio alfa. E con pesci più piccoli noti nell’ambiente per ostentarsu fluidi solo per ampliare il proprio territorio di viscida conquista a colpi di “scambiamoci il reggiseno”.
Ora, non si tratta di pretendere confessioni pubbliche o linearità sessuale. Nessuno deve a noi la propria etichetta.
Ma quando fai della tua ambiguità un prodotto, quando la rivendi con copertine e premi e standing ovation, mentre c’è ancora chi viene preso a pugni per un bacio, forse qualche domanda sul tuo ruolo nel mondo dovresti fartela.
Il queerbaiting è come il finger food nei locali chic: ti fa credere di essere incluso in qualcosa, ma alla fine resti solo affamato.
Perché quando l’arcobaleno diventa un filtro Instagram, il rischio è che la lotta per i diritti sembri una moda stagionale.
E le mode, si sa, passano. Le battaglie no.