E poi c’è Treviglio. Che non è una metafora, non è una periferia simbolica, non è un laboratorio da convegno. È una città normale, con una ex edicola chiusa da anni, un chiosco che ha smesso di vendere giornali quando i giornali hanno smesso di essere una promessa quotidiana. Un vuoto piccolo, urbano, quasi invisibile. Ed è da lì che nasce una storia che non parla di eroismi, ma di precisione. Che è una forma sottovalutata di coraggio.
All’Enfapi di Treviglio succede una cosa strana, e quindi preziosa: i ragazzi imparano un mestiere senza essere ridotti a quel mestiere. Studiano meccanica, progettazione, sostenibilità, ma intanto leggono Shakespeare. Non perché qualcuno voglia fare un esperimento pedagogico da copertina, ma perché le mani non bastano se non sono guidate da una testa. E la testa, ogni tanto, ha bisogno di parole antiche per capire il presente.
Cinque studenti (Tarik El-Hassouny, Mohamed Thiam, Mohamed Nasr, Zaka-ria Boufarga e Taha Ennasri, aiutati dagli insegnanti Raul Zanca, Laura Crespi, Lavinia Timis, Sabina Regonesi, David Dusyzski e Luciano Armanni) guardano quell’edicola vuota e non vedono il degrado, vedono una possibilità. La chiamano ciclofficina. Ma non nel senso romantico e un po’ radical chic del termine. La immaginano come un luogo vero, concreto, dove si riparano biciclette e insieme si rimettono in circolo persone. Volontari, ragazzi con disabilità, cittadini. Inclusione non come slogan, ma come architettura dello spazio. Chi entra non è giudicato, è ascoltato. Che oggi è già una rivoluzione silenziosa.
Il progetto è fatto di numeri, certo. Business plan, costi, materiali, sostenibilità ambientale. Ma anche di un’idea semplice: la città come organismo che si può aggiustare, bullone dopo bullone. L’Agenda 2030 non come poster appeso in aula, ma come criterio di realtà. La bicicletta non come feticcio green, ma come simbolo minimo di equilibrio. Se stai in piedi, vai avanti. Se sbagli, cadi. E poi impari.
C’è un dettaglio che racconta tutto. Il logo. Un infinito che somiglia a una catena di bicicletta. Matematica e meccanica che si parlano. Continuità, movimento, ritorno. È lì che capisci che questi ragazzi non stanno solo “imparando a fare”. Stanno imparando a pensare. A dare forma a un’idea senza perdere il contatto con la strada.
La scuola professionale, quando funziona, è questo: un luogo dove il futuro non è una parola astratta, ma una responsabilità condivisa. Dove il talento non è separato dalla disciplina. Dove la cultura non è un lusso, ma una cassetta degli attrezzi in più. Shakespeare serve anche a un meccanico, perché parla di errori, ambizione, cadute, risalite. In fondo è tutta lì, la meccanica dell’uomo.
L’ex edicola di Treviglio
forse tornerà ad aprirsi. Non venderà più giornali, ma storie sì. Storie fatte di grasso sulle mani, di progetti disegnati bene, di ragazzi che non chiedono scorciatoie. Chiedono spazio. Che è la cosa più politica che ci sia.