Sognando alla Comasina

Raccontare un quartiere attraverso i suoi sogni e con l’aiuto dell’arte teatrale. E’ l’insolita quanto interessante sfida lanciata dal Teatro delle Ariette, l’associazione culturale di Castello di Serravalle (BO) che da diversi anni regala, al pubblico italiano e non, progetti legati al cosiddetto teatro dell’esperienza, «un laboratorio - è scritto nel loro sito - per vivere nel nostro territorio il contatto diretto col teatro, la sua cultura e la sua pratica. Un laboratorio di studio e di indagine sulla funzione del teatro all’interno di una comunità. Un laboratorio di incontro con persone ed esperienze che rinnovano il linguaggio e il senso del teatro. Un laboratorio di confronto e di dibattito». Insomma, un modo intelligente per trasformare il teatro da semplice strumento di fruizione a fenomeno di azione; del resto, lo spettatore dimostra di voler essere sempre più parte attiva. Su proposta di Olinda, così, telecamera alla mano, i ragazzi delle Ariette hanno girato, per una ventina di giorni, nelle strade della Comasina, ricavando quello che loro definiscono una sorta di videofilm sui sogni degli abitanti di un quartiere che in tanti ricollegano immediatamente solo alle gesta di Vallanzasca. È nato così «I sogni della Comasina» che sarà proiettato stasera, alle 21.30, all’ex Paolo Pini, nell’ambito di «Da vicino nessuno è normale».
Non sono nuovi, quelli delle Ariette, a questo tipo di teatro di incursione. L’anno scorso, in Francia, più precisamente a Calais, avevano prodotto e realizzato, con gli stessi criteri, «Les reves de Calais». A spiegare, nel dettaglio, metodi e risultati è Stefano Pasquini, ideatore, con Paola Berselli, di questo interessante forma d’arte teatrale portata nelle strade. «Il nostro non è un documentario perché non abbiamo usato un approccio giornalistico o sociologico. Siamo attori e come tali abbiamo cercato di fare un lavoro di costruzione istantanea con la gente, senza porci limiti di tempo o di spazio, ascoltando e stimolando i nostri interlocutori». La gente, spesso, diffida di chi ha una telecamera in mano ma, in questo caso, Pasquini ha trovato grande collaborazione tra gli abitanti del quartiere.
«Ci chiedevano subito di che televisione fossimo e su che canale avremmo trasmesso il film. Confesso che eravamo un po’ spaventati da questo approccio. Per noi che veniamo dalla campagna bolognese restava l’incognita di dover operare in un territorio molto diverso, con palazzoni alti. Invece, la gente faceva quasi a pugni per parlare con noi. Partivamo da una semplice domanda: tu sogni? lasciando a loro la libertà di esprimersi senza condizionamenti. Credo che alla fine ci siamo arricchiti entrambi ricavandone quella che io definisco una azione d’arte collettiva con i cittadini». Incuriosisce sapere quale aspetto lo abbia più colpito durante questi venti giorni di interviste sul campo: «È stata la loro voglia di farsi ascoltare. La gente ha bisogno di questo, di sfogarsi, di aprirsi. E in noi hanno trovato una porta aperta perché ascoltare è fondamentale al giorno d’oggi, non si perde certo tempo nel farlo; anzi, ci si arricchisce». Avendo sperimentato due realtà così differenti come quella di Calais e della Comasina, vien spontaneo chiedere a Pasquini il suo impatto sociale con i due luoghi. «Calais -spiega l’autore- è una cittadina di sradicati, di immigrazione vissuta ad ondate successive da varie parti d’Europa. È un paese che vive una grossa crisi legata alla scomparsa di tessile e miniere. La Comasina, invece, mi ha confermato la sua natura di quartiere autosufficiente, una sorta di paese dove la gente si conosce, si saluta. Molti, il giorno successivo alle interviste, ci vedevano e riconoscevano quasi considerandoci già parte di loro. Lo considero un germe di positività così come il fatto che continui ad esistere un tessuto sociale nel bene e nel male. Al bar possono tranquillamente ritrovarsi il muratore e... il bandito». La speranza è un sogno ad occhi aperti, diceva Aristotele e ascoltando il resoconto di Pasquini vien da pensare che alla Comasina la speranza colori delle stesse intonazioni di ogni latitudine. «I sogni ad occhi aperti dei nostri intervistati sono abbastanza comuni. La gente della Comasina, a seconda della propria età, vorrebbe star bene, vivere tranquilla, trovare lavoro e, se straniera, possedere i documenti per poter risiedere regolarmente in Italia; i giovani, invece, amano gli status symbol come la Lamborghini o diventare, ad esempio, dei calciatori. Diverso è il discorso per i sogni notturni.

Mi ha colpito il fatto che in molti ricordassero ed imprimessero nitidamente scene legate ai numeri mentre le straniere si rivedevano nel loro paese d’origine. Una cosa è certa: ormai nessuno sogna più di fare il medico o l’ingegnere».

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